Il fatto
In quasi 2000 città nel mondo, circa 200 in Italia, venerdì 15 marzo sono scesi in piazza i giovani per manifestare contro il deterioramento climatico e per uno sviluppo più sostenibile.
Questo è il fatto del quale vogliano richiamare l’attenzione. Proseguiamo quindi con le riflessioni sullo sviluppo, rapportandolo al tema dell’ambiente, sottolineando come i vari aspetti coinvolti, crescita, economia, lavoro, persona, ambiente, ecc., sono fortemente interconnessi e vanno affrontati nella loro globalità.
I motivi del “Global strike for future” sono legati al riconoscimento dell’ormai ineludibile emergenza climatica, confermata dall’intera comunità scientifica, che è concorde nel sostenere come sia rimasto poco tempo per cambiare radicalmente il nostro modello di sviluppo in modo da renderlo sostenibile per la sopravvivenza del genere umano. Gli effetti del cambiamento climatico si stanno facendo sentire: il riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacci e fenomeni meteorologici straordinari sono solo alcuni dei danni che l’azione dell’uomo sta causando al pianeta. Lo scopo dello sciopero è quello di portare all’attenzione di governi e istituzioni i vari problemi riguardanti il clima e l’ambiente: servono interventi drastici per salvaguardare il pianeta ed evitare che la situazione attuale peggiori e non diventi irreversibile. Per questo la politica deve agire e non mostrarsi per lo più poco attenta e coinvolta da tali tematiche. In ogni caso, le Conferenze internazionali sul clima, avviate nel lontano 1992, non sembra abbiano condotto alla svolta auspicata. Infatti, il percorso che ha visto momenti importanti quali il Protocollo di Kyoto del 1997, entrato in vigore nel 2005 e l’accordo di Parigi del 2015 stentano a concretizzarsi e non hanno certo invertito la rotta.
I giovani hanno deciso di far sentire la loro voce: “Chiediamo un modello di sviluppo diverso, ecologico, che non viva del ricatto tra salute, lavoro e ambiente, che abbia il coraggio di mettere al centro, insieme all’ ecosostenibilità, la democrazia, i diritti, la qualità della vita e del lavoro, la conoscenza a partire dalle giovani generazioni.” dichiara il Coordinatore Nazionale dell’Unione degli Universitari e, con il Coordinatore Nazionale della Rete degli Studenti Medi, affermano
“Vogliamo essere educati al cambiamento. Le scuole e le università devono essere epicentro della spinta alla tutela del nostro pianeta, educando le nuove generazioni ad un nuovo modo di abitare il pianeta. L’unico possibile”.
Il commento
Il movimento di protesta giovanile in crescita è lo specchio di una presa di coscienza che senza dubbio sta maturando. Infatti, secondo un’indagine che mette in relazione percezione, rappresentazione e realtà in merito alla sicurezza, pubblicata nel febbraio 2019 a cura dell’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, nella domanda relativa alla priorità che dovrebbe avere la protezione dell’ambiente anche a costo di frenare la crescita economica, a fronte di un 67% di risposte affermative tra tutto il campione, nella fascia d’età 15-24 anni i favorevoli sono stati l’83% e il 73% in quella compresa tra i 25 e i 34 anni.
Nelle manifestazioni affiora la consapevolezza dell’urgenza di azioni tese a innescare cambiamenti in positivo, del fatto che non ci sia più tempo da perdere, perché altrimenti sarà troppo tardi. È convinzione dei giovani che per anni il tema del cambiamento climatico sia stato prima negato, poi ignorato e infine sottovalutato. Ma adesso è più urgente che mai pretendere delle politiche sempre più incentrate sulla lotta ambientalista.
Ecco un altro aspetto emergente: i “grandi”, gli adulti in generale e i governanti devono svegliarsi e agire. Vi è una forte critica nei riguardi della politica, troppo poco attenta e impegnata nel conciliare sviluppo con sostenibilità, supina, se non connivente, nei confronti dei grossi interessi economici in ballo. L’istanza è chiara: i ragazzi e le ragazze chiedono ai governanti di rispettare nei loro paesi gli accordi di Parigi, ma anche di cambiare un sistema produttivo e di consumo malato.
Sul “banco degli imputati” anche la scuola nella quale, a detta degli studenti, di riscaldamento globale e di ambiente se ne parla poco e male: si approfondisce solo se si ha la fortuna di incontrare qualche insegnante particolarmente attento a tali tematiche.
L’Italia appare nella mappa del movimento globale come il paese più attivo e impegnato, e questo è certamente un fatto significativo. Un ampio gruppo di associazioni, giornalisti, attivisti del nostro Paese sostengono la protesta. «Prendiamoci in mano i destini della Terra e obblighiamo i governi a seguirci», recita l’appello comparso su Change.org. Sembra, però, che Governo e forze politiche, con alcune eccezioni, continuino a non cogliere il messaggio.
La nascita e lo sviluppo del movimento meritano alcune riflessioni dedicate. Tutto parte, lo vedremo subito dopo, dall’iniziativa di una ragazza svedese e pochi altri suoi compagni, vale a dire da un piccolo gesto, da un segnale lanciato quasi senza volerlo. Questo deve spingere a considerare come ogni nostra azione, ogni parola, possono avere degli effetti, quindi non bisogna ritenere inutile impegnarsi, anche in pochi e in silenzio.
Un fattore importante nella crescita del movimento lo hanno avuto i mezzi di comunicazione, in primo luogo i canali social, che hanno permesso una rapida diffusione delle informazioni e delle idee, nonché la partecipazione di tanti e uno scambio di opinioni. Non sono i mezzi, dunque, giusti o sbagliati, lo possono essere gli utilizzi e i fini con i quali sono usati.
La protesta indica poi l’importanza del prepolitico, dell’impegno per valori e obiettivi comunque rilevanti. Ma è di estrema importanza che questi diventino politica, che abbiano la capacità di incidere sul governo della cosa pubblica perché si concretizzino. Significa per chi fa politica accettare la sfida e impegnarsi, ma vuole dire anche spingere qualcuno a diventare protagonista anche in politica, prendendosi la responsabilità di portare avanti in quella sede le idee alla base della protesta, e non solo quelle.
È necessario superare l’ostilità nei confronti del mondo politico, fortemente presente nel movimento, sapendo che quello è il livello da coinvolgere e raggiungere per innescare cambiamenti significativi. C’è un bisogno sempre più urgente di una politica rinnovata, di canali e di strumenti di partecipazione democratici, di progetti politici in grado di invertire la rotta verso un modello di sviluppo centrato sulle persone e la sostenibilità a tutto tondo.
È significativo, infine, che la spinta arrivi dai più giovani, spesso considerati dal sentire comune, e dai meno giovani, disinteressati, vittime della cultura dominante, attenti solo ai consumi e al divertimento. I segnali che arrivano dicono che non è così, se possono esprimersi liberamente, se hanno, o si conquistano, spazi di protagonismo.
I giovani hanno una grossa responsabilità: in base al recente rapporto dell’ONU sui cambiamenti climatici, sono l’ultima generazione che può davvero fare qualcosa per il benessere del pianeta e invertire la rotta del riscaldamento globale e della crescita selvaggia che lo provoca, insieme a tanti altri problemi sociali e tante disuguaglianze. Il rapporto ha infatti messo in chiaro come vi sia ancora solo un decennio per modificare il modo di produrre e di sfruttare le risorse che stanno sempre più impoverendo il nostro Pianeta.
Non bisogna lasciarli soli in questa lotta.
Le fonti
Le manifestazioni del venerdì, lo sciopero del 15 marzo e il movimento che li anima sono nati da una giovanissima attivista svedese, Greta Thunberg, che per molte settimane non si è recata a scuola e ogni giorno in orario scolastico si è posizionata davanti al Parlamento svedese, dove mostrava il cartello “Skolstrejk för klimatet” (Sciopero della scuola per il clima). Una volta eletto il nuovo governo Greta ha ripreso ad andare a scuola, ma ogni venerdì si reca davanti al Parlamento svedese per mostrare il suo dissenso. Con il passare dei giorni si sono uniti a lei altri studenti e pian piano altre città in tutto il mondo hanno cominciato a organizzare grandi proteste per il clima, tutte di venerdì. È nato così un movimento globale con il suo sito WEB e la presenza sui social network (Facebook e l’hashtag #FridaysforFuture) che hanno permesso a differenti giovani di tutto il mondo, di organizzarsi e di programmare manifestazioni in ogni angolo del pianeta.
L’emergenza denunciata si basa su dati che scienziati di tutto il mondo diffondono da anni. Alcuni tra gli ultimi rapporti sono quello ONU già citato, del quale qui si può trovare una sintesi pubblicata su HuffPostUsa, il nuovo rapporto dell’Unep (United Nations Environmental Programme, il programma ambientale delle Nazioni Unite), la cui presentazione è consultabile a questo link, e il rapporto speciale dell’organizzazione Mondiale della Sanità su salute e cambiamento climatico, qui illustrato.
L’ultimo rapporto realizzato da Swg sulla percezione dei cambiamenti climatici nel nostro Paese, mette in risalto come preoccupino gli italiani l’emergenza climatica, la cura dell’ambiente, e l’inquinamento atmosferico.
Sul Sole 24 Ore è comparso un interessante contributo sul tema, a firma del ricercatore Enrico Mariutti, che mette in evidenza l’estrema complessità del problema e le sue molte dimensioni, alcuni limiti ideologici del movimento legato alle manifestazioni del venerdì e le strategie integrate che andrebbero attivate per affrontare il problema.
Il fondamentale riferimento nella Dottrina sociale della Chiesa è l’enciclica Laudato si’ di papa Francesco del 2015, nella quale affronta i problemi legati all’inquinamento e ai cambiamenti climatici, questioni come l’esaurimento delle risorse naturali, l’acqua ad esempio, la perdita di biodiversità, allargando la prospettiva agli effetti sulla qualità della vita e a quella che chiama “inequità”, sottolineando la debolezza delle risposte. Il Papa propone il messaggio scritturistico, “Il Vangelo della creazione” come titola il secondo capitolo, e i valori che dovrebbero ispirare una corretta prospettiva. Passa poi ad analizzare la “crisi ecologica”, contestando il “paradigma tecnocratico” e mettendo in evidenza la crisi dell’antropocentrismo moderno. La sua proposta, forte, si sintetizza in “un’ecologia integrale”, nella quale la sostenibilità sia non solo ambientale, ma anche economica e sociale, guidata dal principio del bene comune e dalla giustizia tra generazioni. Il Papa conclude indicando alcune linee operative, fondate sul dialogo e una prospettiva di confronto internazionale, nonché la necessità di un’educazione e una spiritualità ecologica che conducano verso uno stile di vita alternativo e integralmente ecologico.
Le radici recenti di questa chiara presa di posizione affondano nel Concilio Vaticano II, che si è soffermato sulla “cura del creato”, sui compiti dell’umanità nei confronti della terra, e nelle parole dei papi. Paolo VI metteva in guardia sullo sfruttamento sconsiderato della natura che provoca gravi problemi di sicurezza per l’uomo stesso, oltre a essere una degradazione dell’ambiente. Giovanni Paolo II esponeva i danni causati dall’uomo all’ambiente, espressione dell’avidità di alcuni nell’avere e nel godere oltre quello che è possibile; riconduceva il rapporto dell’uomo con l’ambiente al progetto creatore di Dio e alla responsabilità dell’umanità nel continuare l’opera di conservazione del creato. Al contrario lo sfruttamento moderno, accresciuto dal consumismo, è un errore antropologico: l’uomo dimentica di essere collaboratore e diviene padrone. All’ambiente ha fatto riferimento anche Benedetto XVI, legando la sua salvaguardia alle questioni sociali, ponendo la protezione dell’ambiente all’attenzione dei responsabili internazionali, invitando a ripensare l’attuale modello di sviluppo globale. Ulteriori spunti possono essere colti, infine, dal Compendio della dottrina sociale della Chiesa.