Il fatto
Nei primi giorni di febbraio si sono svolte, dapprima presso la Suprema Corte di Cassazione, e poi presso tutti i distretti di Corte d’Appello, le cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario.
Ritualmente, con un fare piuttosto polveroso, ma certamente sacro, le massime autorità della giurisdizione tracciano il bilancio dell’anno passato con riguardo allo spinoso tema della “Giustizia”.
Tralasciando in questa sede il tema della giustizia civile, non si possono invece chiudere gli occhi innanzi a quanto accaduto con riguardo alla “Giustizia Penale”.
Sono state, infatti, molteplici le prese di posizione durante le cerimonie in questione, sia da parte della Magistratura, sia da parte degli avvocati che con vistose proteste hanno ribadito la loro contrarietà alla riforma recentemente entrata in vigore dell’istituto della prescrizione.
Ma questo è stato solo l’ultimo episodio che testimonia la delicatezza della materia e un certo caos che la governa.
Molti sono i temi sul tavolo: l’obbligatorietà dell’azione penale, la separazione delle carriere, la responsabilità civile dei magistrati, per dirne alcuni.
Ma l’oggetto del contendere in questo momento è, appunto, l’istituto della prescrizione, riformato, entrato in vigore il primo di gennaio. Per prescrizione si intende il termine entro il quale un reato può essere perseguito, allo scopo di evitare un processo quando lo Stato non ha più interesse a punire il fatto e operare per il reinserimento sociale del presunto colpevole, o non è in grado di farlo, essendo trascorso troppo tempo. La novità, in breve, è rappresentata dallo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado, in ogni caso, sia se è di condanna sia se è assolutoria.
Tale cambiamento rispetto alla precedente legislazione, che stabiliva i tempi della prescrizione sulla base della gravità del reato senza legarli a una sentenza, ha diviso il mondo della politica e degli esperti di diritto, con forti proteste da parte degli avvocati e, anche, dei magistrati, in quanto sono previste sanzioni disciplinari per chi non rispetta la «ragionevole durata del processo».
La prescrizione è un istituto di garanzia. Introdotto in quasi ogni ordinamento giuridico, esso sanziona il disinteresse dello Stato, o la sua inefficienza, ad accertare un reato. Se il processo dura più di un certo tempo significa che allo Stato non interessa celebrarlo, oppure non è in grado di farlo. Per tale ragione, e per la certezza delle relazioni sociali, non pare corretto lasciare un preteso indagato/imputato nella condizione di persona in attesa di giudizio/giudicato a tempo indeterminato, in quanto tale condizione causa, al di là del discredito, anche gravissimi disagi alla normale vita relazione, al lavoro, ai rapporti sociali.
I tempi in cui matura sono già lunghissimi: per i reati di media gravità si attestano sui 15 anni. Può accettarsi che un processo ci metta 15 anni ad essere celebrato? Uno Stato che non riesce a punire un soggetto, o assolverlo, in 15 anni è uno Stato che tiene all’applicazione della giustizia, è corretto, giusto? Probabilmente no.
Il commento
Coinvolti nel tema della prescrizione vi sono una serie di elementi: la certezza del diritto, e della sanzione per chi è colpevole, ma anche la dignità della persona, nonché il senso della pena che è anche quello di favorire un cambiamento per il reinserimento nella società.
La Costituzione regola la materia negli articoli 24, 27, 111 laddove si stabiliscono le garanzie del giusto processo, della pena quale strumento di rieducazione, della presunzione di non colpevolezza sino alla sentenza definitiva.
La prescrizione è un istituto di civiltà giuridica, assodato in democrazia, che è presente negli ordinamenti dei paesi democratici: il problema non è quindi in se stesso, ma nel modo con cui viene gestito e nell’efficienza del sistema giudiziario.
In breve, i tempi della prescrizione sono legati alla gravità del reato, per i più seri non esiste, e si applica per alcune ragioni. La lontananza nel tempo del fatto provoca la diminuzione dell’interesse dello Stato e della società a vederlo sanzionato e rende difficile ricostruire la verità. Inoltre se la giustizia non agisce in tempi ragionevoli non può costringere una persona a dover rendere conto di un suo atto, magari di lieve entità come reato, molti anni dopo, quando lei stessa è probabilmente cambiata.
Un certo giustizialismo, oggi, spinge a considerare l’indagato o l’imputato già colpevole, per il solo fatto di esserlo, contro il principio costituzionale di un dubbio che si risolve solo con la sentenza definitiva. Il dubbio, e la sospensione del giudizio, sono spesso dimenticati, e la persona si trova condannata, con tutte le conseguenze del caso, sociali, lavorative, nelle relazioni, ancor prima del processo. Tutto ciò può appagare certi settori dell’opinione pubblica, ma non la ricerca della verità e il rispetto della dignità delle persone.
Il dilemma può riassumersi in una semplice frase: è meglio un innocente in carcere che un colpevole libero o è preferibile un colpevole libero piuttosto di un innocente recluso?
È importante poi porre in risalto un dato che contrasta con la narrazione fatta da molte parti politiche e dell’informazione, nonché con molto del sentire comune. I reati sono in diminuzione costante: ad esempio negli ultimi cinque anni vi sono stati oltre 500.000 crimini in meno (basta cercare la documentazione sull’argomento per entrare nel dettaglio dei numeri e delle tipologie di reato).
Ciò significa che probabilmente la sicurezza non è un’emergenza, come qualcuno vuol far credere, ma neppure che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Chi sbaglia deve pagare, per mantenere la convivenza civile su binari corretti, e la giustizia deve servire a questo. Però con le garanzie che ogni stato di diritto deve avere.
Pagare significa scontare una pena secondo i dettami costituzionali, e il suo scopo ultimo è quello di recuperare, riappacificare, permettere di ricominciare anche a chi ha sbagliato.
Quale la soluzione? Certamente una maggiore rapidità nello svolgimento dei processi, giungendo in tempi ragionevoli alle sentenze.
Una narrazione superficiale vorrebbe che la lentezza della giustizia non solo fosse colpa della prescrizione, ma più ancora delle operazioni dilatorie poste in essere dagli avvocati per conquistarla a vantaggio dei loro assistiti. Non è sempre così: ogni tentativo dilatorio è oggi impedito dalle norme. Un rinvio di udienza richiesto da un avvocato, ogni altra circostanza determini lo slittamento del processo, è causa della sospensione della prescrizione e quindi del suo allungamento. Né gli alibi all’inefficienza della giustizia reggono con le motivazioni di volta in volta addotti delle troppe impugnazioni e delle troppe garanzie di un processo lento.
Il sistema non funziona, in primo luogo, perché il carico giudiziario è immenso mentre i ruoli del personale amministrativo e dei magistrati sono assai scarni. Se il sistema fosse adeguato, correttamente dimensionato alla domanda di giustizia, se il personale fosse sufficiente, se i magistrati fossero in numero appropriato, il sistema giudiziario non sarebbe la lumaca che è.
Un altro elemento da considerare è un certo giustizialismo e la tentazione di condannare qualcuno per il solo fatto di essere indagato. È stabilito, invece, che si è colpevoli, di fronte alla legge, solo dopo la sentenza definitiva: questa è la giustizia e a questo serve.
Marchiare una persona, metterla alla gogna mediatica e sociale non è giustizia, non aiuta la ricerca della verità.
Sono necessarie, quindi, delle riforme, per affrontare i problemi rapidamente toccati, ed è compito importante della politica elaborarle. Servono riforme, vero, ma serve anzitutto il rispetto dei ruoli e una cultura delle garanzie quali presidi ultimi, generali, democratici, per la vita dei cittadini, tutti.
Per questioni così serie sono da evitare le semplificazioni brutali, quali «buttare le chiavi» e «liberi tutti», oppure le contrapposizioni politiche nell’affrontare le riforme della giustizia, rivolte alla facile ricerca del consenso. Invece, in questa materia, come in tutte per la verità, ci sarebbe bisogno di studio, pacatezza e razionalità. I sistemi complessi, le materie importanti sono meccanismi difficili, che vanno affrontati con grande attenzione, fondandoli su principi profondi e meditati, valutando ogni sfaccettatura.
Dalla classe politica dobbiamo pretendere, quindi, senso di responsabilità, l’umiltà di studiare e l’impegno a non strumentalizzare, perché solo così possiamo sperare in riforme che non si trasformino, alla prova dei fatti, in toppe peggiori del buco.
Le fonti
Il primo febbraio nelle 26 Corti di appello si sono svolte le cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario.
Tali celebrazioni sono normate dalla riforma dell’ordinamento approvata nel 2005. A partire dal 2006, quindi, il Ministro rende comunicazioni alle Camere sull’amministrazione della giustizia nel precedente anno e sugli interventi per l’organizzazione e il funzionamento dei servizi per l’anno in corso. La Corte di cassazione, presente il Presidente della Repubblica, e le corti d’appello, si riuniscono successivamente in forma pubblica e solenne per ascoltare la relazione generale del Primo Presidente della Corte di cassazione e le relazioni per i singoli distretti dei Presidenti di corte d’appello.
Essendo la cerimonia un’occasione di pubblico dibattito sull’amministrazione della giustizia, possono intervenire i rappresentanti degli organi istituzionali, il Procuratore generale e i rappresentanti dell’Avvocatura.
Il Ministero della Giustizia ha diffuso la Relazione sulla amministrazione della Giustizia nell’anno 2019, una ricchissima e vastissima documentazione, riassunta, pur in un testo di quasi 300 pagine, nella Sintesi della Relazione del Ministro sull’amministrazione della giustizia per l’anno 2019.
Nel commento abbiamo citato tre articoli della Costituzione italiana, ecco i testi.
Art. 24. Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.
Art. 27. La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.
Art. 111. La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata. Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo. Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore. La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita. Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra. Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione.
Il tema della prescrizione è stato affrontato ampiamente dai media, come esempio citiamo un dossier pubblicato su Famiglia Cristiana.