Il fatto
Il giorno di San Valentino quest’anno si è caratterizzato per un fatto politico importante: il giuramento del nuovo governo presieduto da Mario Draghi.
La crisi si era aperta il 26 gennaio quando l’ex premier Giuseppe Conte si era recato al Quirinale per comunicare le sue dimissioni. Il Capo dello stato aveva allora incaricato il presidente della Camera Fico di un primo mandato esplorativo che non ha avuto un esito positivo, per cui Mattarella decideva di incaricare Draghi di formare un nuovo governo.
L’esito è oramai noto a tutti e ha avuto come sbocco un’ampia maggioranza parlamentare con il voto favorevole, e la presenza nell’esecutivo, della gran parte delle forze politiche rappresentate nell’organo legislativo.
Il commento
La risolta crisi di governo stimola alcune riflessioni sulla politica in Italia, sui partiti che ci rappresentano e sulle donne, poche, e gli uomini in essi attivi.
Una primissima considerazione va sollevata a proposito del delicatissimo periodo che stiamo vivendo, come il resto del mondo d’altronde, che ha spinto il presidente Mattarella a non scegliere la strada delle elezioni anticipate: «Sotto il profilo sanitario, i prossimi mesi saranno quelli in cui si può sconfiggere il virus oppure rischiare di esserne travolti. Questo richiede un governo nella pienezza delle sue funzioni per adottare i provvedimenti via via necessari e non un governo con attività ridotta al minimo, come è inevitabile in campagna elettorale».
Indubbiamente la situazione creatasi rappresenta una sconfitta per le forze politiche, per tutte, indipendentemente dal ruolo giocato in questa legislatura, poiché non è emersa alcuna maggioranza in grado di esprimere un governo per il Paese: tutte, seppure con posizioni e modalità diverse, non sono state in grado di svolgere il loro compito.
Dalle vicende degli ultimi anni sorge un dubbio. I partiti hanno davvero a cuore il bene dei cittadini, l’interesse generale, o perseguono obiettivi di “bottega”, il breve tornaconto del consenso, o, peggio ancora, finalità miseramente personali? Osservando le due ultime crisi di governo il sospetto pare lecito. Tali considerazioni dovrebbero spingere tutti noi e le forze politiche a un serio ripensamento, a imboccare l’impervio sentiero di una profonda trasformazione, guidata da alcuni capisaldi: il porre al centro il bene comune, la partecipazione e la rappresentatività.
Sempre osservando gli ultimi anni delle vicende nazionali emergono altri elementi critici. La composizione del parlamento non rispecchia probabilmente gli attuali equilibri: alcuni partiti sono sovradimensionati e altri meno, rispetto all’attuale seguito. Da diversi anni inoltre i presidenti del Consiglio non sono più parlamentari e non pervengono direttamente dal ceto politico. Questo elemento dovrebbe suggerire un’ulteriore riflessione!
I partiti non godono certo di buona salute, in particolare per quanto concerne la capacità di coinvolgere attivamente e la leadership. Infatti coloro che partecipano sono sempre meno e sempre di più la guida è affidata a “uno solo al comando”, a scapito di una gestione collegiale, con meccanismi aperti, trasparenti e democratici: quello di maggioranza relativa non ha una struttura definita, ad esempio. Il modello novecentesco è tramontato, ma non se ne vede uno nuovo in grado di rispondere adeguatamente alle esigenze e all’assetto della società contemporanea.
Oggi gli strumenti per informarsi e partecipare sono addirittura sovrabbondanti, ma andrebbero utilizzati da tutti in modo serio e intelligente, e dovrebbero essere a servizio di un confronto costruttivo e di scelte condivise.
Tutto ciò avviene troppo poco spesso. Lo dimostrano, ad esempio, quanto emerso dai sondaggi effettuati all’indomani delle due ultime crisi di governo: in entrambe le situazioni la grande maggioranza degli interpellati non è sembrata aver compreso le ragioni delle due crisi, è apparsa disorientata. Questo non contribuisce certo a colmare la frattura tra cittadini e politica.
Una considerazione ulteriore va fatta a partire dai commenti della stampa internazionale sulla situazione politica italiana, non solo attuale: il problema dell’instabilità. Da sempre, ma soprattutto oggi, la complessità dei problemi necessita di prospettive di lungo periodo, di progettualità di ampio respiro, che non possono trovare risposta senza governi in grado di agire per un tempo sufficiente. Non solo, in tal modo le forze politiche potrebbero essere davvero sottoposte a una prova valida che, se non superata, conduca a vere alternanze. Una riforma elettorale autorevole dovrebbe fondarsi su simili basi e non su miseri calcoli di convenienza immediata per qualcuno. Questo implicherebbe un ripensamento anche delle dinamiche tra maggioranza e minoranza, con un ruolo importante anche per la seconda, come capacità di critica, di contribuire con ottica diversa alla costruzione delle politiche, preparandosi a diventare forza di governo.
Il potere comporta grandi responsabilità, non è un gioco, dunque basta giochi di potere; in questo periodo ci sono da affrontare sfide estremamente impegnative ed è necessario farlo con responsabilità, competenza e serietà, sia da parte dei cittadini, sia da parte della classe dirigente: questa è democrazia e questo va chiesto a gran voce.
Le fonti
Draghi e i 23 ministri hanno recitato di fronte al Capo dello Stato la formula di rito: «Giuro di essere fedele alla Repubblica e di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione».
Questa conclusione è sempre frutto di un percorso guidato dalla Costituzione.
La prassi
Genericamente questa, all’articolo 94, afferma che «Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere», per cui una crisi subentra se l’esecutivo non ha più una maggioranza in Parlamento. La crisi può essere parlamentare quando un voto ne decreta l’essere in minoranza, o per una sfiducia o per la sconfitta nella presentazione di un provvedimento sul quale è stata posta proprio la fiducia; oppure extraparlamentare, con la formalizzazione delle dimissioni spontanee del presidente del Consiglio.
Il percorso per la formazione di un nuovo governo è stabilito dall’articolo 92 della Costituzione e, nella prassi, ci si arriva attraverso un processo che prevede diverse fasi: le consultazioni, l’incarico, la nomina, il giuramento e infine la fiducia, come stabilito dagli articoli 93 e 94. In tale iter la Costituzione attribuisce molta autonomia al presidente della Repubblica, a partire dalle consultazioni, che sono una “consuetudine istituzionale” poiché non sono condizionate dalla Carta, fino all’affidamento dell’incarico e alla nomina dei ministri, che spetta solo a lui.
I governi in Italia
Quello presieduto da Mario Draghi è il numero 67 della storia della Repubblica. Il primo, nel 1946, era guidato da Alcide De Gasperi, che fu presidente del Consiglio per sette volte, più una tra la fine del periodo monarchico e quello repubblicano. L’esecutivo che è stato in carica più al lungo fu il secondo capeggiato da Silvio Berlusconi, con 1412 giorni, mentre quello durato di meno fu il primo di Amintore Fanfani, che resse solo 22 giorni.
Tra i presidenti del Consiglio il podio come permanenza a capo dell’esecutivo spetta nell’ordine a Berlusconi, con 3339 giorni, seguito da Andreotti (2678) e De Gasperi (2591), mentre in coda troviamo Fernando Tambroni con 123 giorni. Riguardo all’età, il più giovane primo ministro è stato Matteo Renzi che ebbe la nomina a 39 anni, mentre il più anziano fu Fanfani, che terminò il suo ultimo mandato a 79 anni. Mario Draghi ha già conquistato il primato del premier più vecchio al primo incarico, coi suoi 73 anni, superando Carlo Azeglio Ciampi che lo divenne all’età di 72, dopo essere stato anche lui presidente della Banca d’Italia.