Il personaggio
Berta Isabel Cáceres Flores è stata un’attivista honduregna che ha lottato per la difesa del territorio e i diritti del popolo Lenca, in particolare per la salvaguardia del Rio Gualcarque, e per questo è stata uccisa nella notte tra il due e il tre marzo del 2016.
Con lei desideriamo ricordare tutti coloro che si sono battuti e si battono per la salvaguardia delle risorse idriche e dell’ambiente in generale: i cosiddetti defensder.
Si tratta di persone che, con un’azione pacifica, sono in prima linea nella protezione dell’ecosistema. Persone comuni, che probabilmente non si riferirebbero mai a se stessi con l’appellativo di “difensori”. Tra loro troviamo indigeni che vivono tra le montagne o le foreste e vogliono proteggere le terre dei loro antenati e le loro tradizioni da multinazionali o catene di hotel di lusso, o ranger che cercano di contrastare il bracconaggio, o ancora avvocati, giornalisti e membri di organizzazioni non governative che denunciano abusi e illegalità.
Il 60% dei crimini ai loro danni avviene in America Latina, in particolare in Brasile, Colombia, Honduras e Perù. L’industria estrattiva è la maggiore causa delle proteste, e delle morti, anche in India e Turchia. In Messico e nelle Filippine gli ambientalisti vengono uccisi principalmente per mano di gang criminali, mentre in Africa la più grande minaccia alla loro vita arriva dal bracconaggio.
La vita
Berta Cáceres nacque il 4 marzo del 1971 a La Hesperanza, capoluogo del dipartimento di Intibucá, nella parte occidentale dell’Honduras. Sua madre, di origine salvadoregna, era un’ostetrica impegnata nel sociale e da lei si è fatta ispirare per la sua attività di ambientalista e politica.
Durante il periodo di frequenza all’università fu tra i fondatori del Consejo Cívico de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras (COPINH), il Consiglio delle organizzazioni popolari e indigene del paese centroamericano, un’associazione dedita alla difesa dell’ambiente e delle popolazioni indigene.
Con tale ente Berta condusse diverse campagne sui temi della deforestazione illegale, della proprietà terriera, e sulla presenza di basi statunitensi nel territorio degli indigeni Lenca. Questi nel 2006 le chiesero di investigare sull’arrivo di alcune imprese nell’area. Dalle sue indagini emerse che una joint venture, probabilmente composta dalla compagnia cinese Sinohydro, l’International Finance Corporation e la società honduregna dell’energia elettrica Desarrollos Energéticos S. A. (conosciuta come DESA), progettava di costruire uno sbarramento per la produzione di energia idroelettrica sul fiume Gualcarque.
L’iniziativa violava il diritto internazionale, non avendo consultato le popolazioni locali e i Lenca lamentavano il fatto che la diga avrebbe messo a repentaglio l’accesso all’acqua sia per scopi alimentari e di pulizia, sia per l’agricoltura e la pesca, rendendo inoltre difficile il passaggio ad aree da loro utilizzate per la raccolta di prodotti e sostanze medicinali: in sostanza il progetto poteva condizionare pesantemente il loro modello di vita.
Berta e la sua organizzazione operarono insieme alla comunità locale per allestire una campagna di protesta e un’azione legale, portando il caso di fronte alla Commissione Interamericana dei diritti umani. Le manifestazioni prevedevano anche presidi per impedire l’accesso alle società costruttrici.
Il 15 luglio 2013 alcuni militari aprirono il fuoco contro i manifestanti uccidendo un attivista del COPINH e ferendone altri tre; due situazioni analoghe avvennero nel maggio dell’anno successivo con altri due morti e tre feriti gravi. Questi furono i due incidenti più seri in un costante clima di minacce e molestie, più volte denunciato dalla comunità locale, da parte di lavoratori della compagnia, dalle guardie preposte alla sicurezza e dai militari.
Sempre nel 2013 Sinohydro e International Finance Corporation abbandonarono il progetto, a causa delle proteste, ma la DESA decise di proseguire, seppure modificando il luogo di costruzione dello sbarramento, allo scopo di sviare le contestazioni. L’impresa, nel contempo, denunciò Berta e altri due indigeni per «usurpazione, coercizione e danni», nonché per incitamento alla violenza nei confronti della compagnia. In risposta a tali attacchi, Amnesty International dichiarò che se gli attivisti fossero stati arrestati l’organizzazione li avrebbe considerati «prigionieri di coscienza».
Decine di altre associazioni fecero appello al governo dell’Honduras affinché smettesse di criminalizzare i difensori dei diritti umani e che, piuttosto, investigasse sulle minacce da loro ricevute.
Queste erano iniziate anni addietro, in corrispondenza con il colpo di stato del 2009, al punto che la Commissione interamericana dei diritti aveva inserito Berta Cáceres nella lista delle persone in pericolo di vita, richiedendo misure di protezione.
Il culmine delle violenze fu naturalmente la sua uccisione avvenuta nel marzo 2016 da parte di alcuni uomini armati, che ferirono anche l’attivista messicano Gustavo Castro Soto, ospite della donna, giunto il giorno prima a La Esperanza per un incontro.
Il governo honduregno, che avrebbe dovuto proteggerla, dichiarò che non era presente un servizio di sorveglianza poiché non era stato comunicato il cambio di residenza di Berta, che si era trasferita da poco nella nuova abitazione.
Berta Cáceres lasciò quattro figli e l’ex marito, Salvador Zúñiga, anche lui tra i leader del movimento ambientalista.
Le reazioni, le indagini e il processo
La responsabilità dell’omicidio furono subito attribuite alla ditta costruttrice della diga, e il fatto unanimemente condannato. L’Alto commissariato per i diritti umani e i rappresentanti di nazioni e organizzazioni internazionali chiesero l’apertura di un’indagine da parte dell’Organizzazione degli stati americani e il presidente dell’Honduras dichiarò una priorità il far luce sull’accaduto. Si svolsero anche numerose manifestazioni di sdegno e di protesta in diverse parti del mondo.
L’inchiesta portò a perquisire gli uffici della DESA e a una serie di interrogatori di suoi dipendenti. Il 16 marzo furono arrestati quattro uomini: il dirigente per le questioni ambientali e sociali della DESA, un ex dipendente della società che gestiva la sicurezza, un ufficiale dell’esercito e un capitano in pensione, cui fecero seguito altri fermi e l’incriminazione per otto imputati.
Il processo per l’omicidio di Berta e il ferimento del suo ospite si è concluso nel 2019 con la condanna di sette di loro. Sergio Rodríguez Orellana (il manager della DESA) e Douglas Bustillo (il militare in pensione) a 30 anni e 6 mesi di carcere per il loro ruolo di co-autori nell’omicidio di Berta; Mariano Díaz Chávez (il maggiore dell’esercito) a 30 anni di prigione; Henry Hernández (ex soldato), Elvin Rápalo Orellana, Óscar Torres e Edilson Duarte Meza sono stati condannati a 34 anni di prigione per il loro ruolo nell’omicidio e a 16 anni e 4 mesi di carcere per aver tentato di uccidere anche Gustavo Castro.
David Castillo Mejía, direttore generale della DESA, arrestato il 2 marzo 2018, è ancora in attesa di processo. Castillo è accusato di aver fornito supporto logistico e altre risorse a uno dei sicari già condannati. È la prima persona a essere accusata come mandante dell’uccisione di Berta.
Tuttavia, un rapporto di un gruppo indipendente di esperti, assunto dalla famiglia, ha espresso la convinzione che un maggior numero di persone potrebbe essere stato a conoscenza o aver partecipato alla pianificazione del crimine, ma fino a oggi, non ci sono stati progressi nelle indagini su altri possibili responsabili diretti o indiretti dell’aggressione omicida.
Il commento
L’acqua è un elemento indispensabile alla vita, è un bene comune che appartiene a tutti gli esseri umani e a ogni specie vivente sulla Terra. Il diritto all’acqua è riconosciuto dalla comunità internazionale come diritto umano, universale, autonomo e specifico, quindi inalienabile, e costituisce una condizione essenziale per il pieno godimento della vita e degli altri diritti umani.
La salvaguardia del ciclo dell’acqua è una requisito basilare e, seppure tale elemento sia presente in grande abbondanza, lo è nella sua forma “dolce” solo in una modestissima parte, il 3%, poiché il 97% è rappresentato da quella salata: dunque è un bene disponibile in quantità molto limitata.
La sua proprietà deve essere saldamente in mano pubblica, il governo e il controllo devono essere democratici e partecipati, coinvolgere le comunità locali.
Nel suo rapporto del 2017 Global Witness, un’organizzazione internazionale attiva nello sfidare gli abusi di potere per proteggere i diritti umani e garantire il futuro al Pianeta, ha definito l’Honduras il «posto più letale per difendere il pianeta» con più uccisioni pro capite di difensori della terra e dell’ambiente rispetto a qualsiasi altro paese. L’assassinio di Berta Cáceres è emblematico di tale violenza mortale, e dozzine di altri diritti indigeni, difensori della terra e dell’acqua, sono stati attaccati e uccisi in Honduras. Le campagne diffamatorie di false accuse sono comuni e spesso anticipano gli attacchi fisici.
Una figura indomita
Berta Cáceres ha dedicato la sua vita a ciò in cui credeva, la lotta per la giustizia ambientale, opponendosi a un certo ordine mondiale che prevede lo sfruttamento delle risorse per fini squisitamente di profitto.
Per la sua attività ha subito per anni minacce, molestie sessuali, violenze: tutte pratiche di una “guerra fredda” contro di lei e la sua organizzazione. Lo scopo naturalmente era farla smettere e vanificare il suo impegno, ma di fronte alla sua irriducibile perseveranza chi la voleva eliminare l’ha fatto uccidendola. E una delle ragioni del suo assassinio è stata l’essere donna, per di più indigena, in un paese maschilista e per questioni tipicamente “da uomini”.
Berta ha scelto di rappresentare il suo popolo ed essere leader di gruppi che vivono di risorse naturali che fanno gola a grandi interessi economici e agiscono senza consultare le comunità locali, violando i loro diritti, generando conflitti e spostamenti forzati.
In quel momento, anche se in Europa poco si sapeva di lei, era l’attivista più conosciuta dell’America centrale e meridionale, aveva ricevuto il Goldman Environmental Prize, una sorta di “Nobel per l’ambiente”, ed era stata ricevuta dal Papa.
Era diventata una vera defender, con una capacità singolare di trattare e negoziare con le autorità, di mettere in contatto contadini e politici, associata all’abilità di essere strumento di unità tra diversi gruppi e interessi. Chi l’ha conosciuta la descrive come una persona intelligente, gentile e nel contempo provocatoria, una vera leader capace di ascoltare e decidere.
Un elemento fondamentale per il quale si battono tutti i defender, e che ha visto impegnata anche Berta, è il diritto delle popolazioni coinvolte in situazioni di uso del territorio a un consenso libero, preventivo e informato ai progetti; questi devono essere rispettosi non solo dell’ambiente, ma anche della cultura degli abitanti e portare un contributo positivo di lavoro, infrastrutture e benessere. Le imprese dovrebbero rispettare i diritti delle popolazioni e dei loro leader di esprimere dissenso e opporsi alle loro attività. Per contro gli interventi non devono manifestarsi come invasione, sfruttamento delle risorse e delle persone.
Le persone come Berta che si impegnano per difendere l’aria, l’acqua, la terra e le foreste stanno cercando di proteggere i diritti e il benessere delle loro comunità e svolgono un ruolo cruciale per l’ambiente e per tutti coloro che dipendono dalla sua salvaguardia. Purtroppo i “difensori” sono “ricompensati” con minacce, attacchi e uccisioni, come accaduto a lei.
I popoli indigeni e le minoranze razziali affrontano il pericolo maggiore, e tra loro sono ad alto rischio le donne, poiché oltre a sfidare potenti interessi economici, i loro sforzi possono trasgredire le norme di genere.
Il ruolo dei governi
È responsabilità delle autorità proteggere i difensori dei diritti umani ambientali e affrontare le cause profonde della violenza. La comunità internazionale dovrebbe vigilare perché ciò avvenga e siano garantiti i diritti.
Gli stati dovrebbero comunicare gli obblighi in materia di rispetto delle popolazioni e dell’ambiente alle imprese commerciali, vigilare e sanzionare le inadempienze, nonché proteggere chi si batte per il rispetto delle persone e dei territori.
Una forte pressione dell’opinione pubblica potrebbe spingere la comunità internazionale a intervenire nei confronti dei governi degli stati più coinvolti perché agiscano per affrontare le problematiche ambientali, strutturali e sociali.
Quali proposte?
Se l’acqua è un diritto non può avere un prezzo, o meglio questo non può essere un ostacolo al suo godimento. La soluzione, in particolare per i paesi e le aree maggiormente problematiche, è una collaborazione tra pubblico e privato allo scopo di ricercare soluzioni adeguate e promuovere la necessaria disponibilità d’acqua.
Essa va protetta sia nella sua qualità, con le necessarie tecnologie, sia nella quantità, ad esempio con una corretta gestione delle dighe: proprio per questo si batteva e fu uccisa Berta. I paesi devono programmare strategie energetiche sostenibili e sicure, riscrivendo le regole del settore con il coinvolgimento di tutti gli attori. La partecipazione è una componente sostanziale, soprattutto utilizzando le esperienze e le competenze dei movimenti a tutela dell’ambiente e valorizzando le conoscenze di chi abita i diversi luoghi.
I problemi della carenza di acqua vanno affrontati con politiche in grado di prevenirli e di progettare soluzioni per il futuro; migliorare le disponibilità significa efficientare la raccolta e la distribuzione dell’acqua, riutilizzarla con processi di depurazione.
Cosa possiamo fare?
I primi atteggiamenti positivi sono non comportarsi in modo indifferente ed essere informati, anche perché di questi argomenti poco se ne parla sui media ed è necessario rivolgersi soprattutto alle organizzazioni impegnate sul campo. Esse propongono petizioni, iniziative di sensibilizzazione, prese di posizione politiche e il sostegno ad azioni concrete che possono essere supportate con l’adesione e la sottoscrizione.
Ognuno, documentandosi, può poi essere attivo nel diffondere notizie e iniziative con le persone vicine.
Conoscere e divulgare il materiale realizzato dalle organizzazioni impegnate nel campo è necessario per produrre un impatto sull’opinione pubblica, sull’agenda politica e nel mondo imprenditoriale: è importante che queste narrazioni, non sempre adeguatamente comunicate, modifichino la sensibilità e la cultura delle persone.
Le fonti
Berta Cáceres è senza dubbio un personaggio poco conosciuto, come lo sono la gran parte delle persone impegnate in questa lotta per la difesa dell’acqua e, in generale, dell’ambiente e dei territori. I dati sulle violenze perpetrate su di loro ci dicono, ad esempio, che negli ultimi tre anni sono più di 200 i defender assassinati ogni 12 mesi.
Non molte sono le informazioni accessibili, comunque sono sufficienti per approfondire la conoscenza di questa significativa donna.
Recentemente è stato pubblicato anche in Italia un libro inchiesta intitolato Chi ha ucciso Berta Cáceres, firmato da Nina Lakhani, giornalista del britannico The Guardian, ed edito da Capovolte, realizzato dopo lunghe ricerche, basato su oltre cento interviste e documenti, anche riservati e confidenziali. Il lavoro fa emergere il ritratto di una donna straordinaria, presenta l’inchiesta e il processo seguito al suo assassinio, nonché il contesto nel quale è nato e lo ha favorito: dal colpo di stato del 2009, ai conflitti tra comunità locali, lo stato e le multinazionali, dimostrando che l’Honduras è uno dei paesi più pericolosi per attivisti, indigeni e giornalisti.
L’ONU ha realizzato una ricerca intitolata They spoke truth to power and were murdered in cold blood (Hanno parlato della verità al potere e sono stati assassinati a sangue freddo) nella quale emerge che l’America Latina è la regione più pericolosa al mondo per chi difende la terra, i diritti degli indigeni e l’ambiente.
Molte organizzazioni si battono per la tutela dell’acqua, dei territori e delle loro popolazioni: Seventh Generation Fund, Amnesty International, Oxfam, WWF, solo per citarne alcune.
In America Latina, tra gli altri, è impegnato sui temi dei diritti umani il Centro Prodh, fondato nel 1988 dalla Compagnia di Gesù, con sede in Messico.
We are water Foundation è stata costituita nel 2010 con l’obiettivo di contribuire alla risoluzione dei problemi derivanti dalla mancanza di acqua e servizi igienici nel mondo; nel decennio ha lanciato 69 progetti in 26 paesi che hanno aiutato oltre un milione e 800 mila persone.
Lontano da noi è molto attivo l’Environmental Defenders Office, il più grande centro legale e ambientale del continente australiano e del Pacifico dedicato alla protezione delle comunità, dell’ambiente e del clima. Analoghi obiettivi, aiutare le collettività per aria e acqua pulite e un pianeta sano, persegue la Environmental Law Alliance Worldwide, un’organizzazione di avvocati e scienziati.
Una menzione particolare merita il Water Grabbing Observatory, che si pone l’obiettivo di monitorare la violazione dei diritti umani e ambientali, di mantenere viva l’attenzione sui beni comuni con l’acqua, di rilavare, analizzare e comunicare fenomeni sociali, ambientali ed economici legati ad acqua e clima.
Sono disponibili alcuni libri che consentono di approfondire i temi trattati finora, tra questi segnaliamo The water defender (I difensori dell’acqua: come la gente comune ha salvato un paese dall’avidità aziendale) di Robin Broad e John Cavanagh, che affronta una situazione difficile in El Salvador.
L’Honduras
Il Paese è uno dei più poveri tra quelli del Centro America, colpito anche da situazioni negative come siccità, inondazioni e uragani. La sua economia si basa sull’agricoltura e sulla trasformazione dei suoi prodotti. Sul piano politico il quadro è condizionato dal colpo di stato avvenuto nel 2009 che ha portato al governo un partito autoritario. È considerato una delle nazioni più violente e uno dei più pericolosi al mondo per l’alto tasso di criminalità, la situazione politico economica e la dilagante corruzione. Tale scenario ha provocato negli anni la fuga di centinaia di migliaia di persone da povertà, mancanza di servizi pubblici e angherie.
Il diritto all’acqua
Il 28 luglio del 2010 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto l’acqua come diritto umano. La Risoluzione è un atto di soft law, è una raccomandazione, pertanto priva di efficacia vincolante, ma è anche un passo politico particolarmente significativo. La Risoluzione ha avuto un periodo di lunga gestazione iniziata con la Dichiarazione universale dei diritti umani nel 1948, che all’articolo 25 contiene un riferimento implicito all’acqua laddove recita che: «ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia». Un analogo riferimento implicito appare a distanza di quasi vent’anni nell’International Covenant on Economic, Social e Cultural Right del 1966. Ma è dagli anni 70 che si inizia a elaborare la categoria dei cosiddetti “diritti di terza generazione”. Nel 1977 la Conferenza dell’ONU di Mar del Plata, in Argentina, si occupa dei problemi relativi alle risorse idriche. Nel 1992 la Conferenza sull’acqua e l’ambiente di Dublino riconosce il diritto all’acqua, ma, mediando sul significato, attribuisce valore economico alla risorsa quando afferma che deve essere venduta a un prezzo accessibile. Dagli anni 2000 il dibattito si fa più acceso. Mentre si rafforza l’idea della necessità di riconoscere il diritto all’acqua, il quinto World Water Forum, conferenza in cui la voce delle multinazionali del settore idrico ha un ruolo centrale, definisce l’acqua un “bisogno” ovvero una merce, un bene da assoggettare alle regole di mercato. Nel luglio del 2010 l’Assemblea Generale dell’ONU adotta la Risoluzione 64/92, che riconosce l’accesso a un’acqua sicura e pulita e all’igiene come diritto umano. Ma il dibattito sul riconoscimento del diritto all’acqua è tutt’altro che superato. La Risoluzione è stata approvata con 122 voti favorevoli, nessun contrario e 41 astenuti. Il dato più rilevante è che tra i paesi che hanno approvato la decisione troviamo essenzialmente i paesi meno ricchi. Gli astenuti, invece, sono la maggior parte degli stati geograficamente europei o politicamente affini, nonché quelli di indubbio rilievo economico e politico quali gli Stati Uniti, il Canada e il Giappone: riconoscere concretamente il diritto all’acqua senza il sostegno dei paesi che esercitano una grande influenza sul piano globale appare assai arduo.
Lasciano ben sperare i passi in avanti compiuti successivamente dalle Nazioni Unite con l’approvazione dell’Agenda degli Obiettivi sostenibili 2030 che prevede per la prima volta la concretizzazione del diritto umano all’acqua e ai servizi igienico-sanitari nell’obiettivo sei: «Garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie. […] Garantire entro il 2030 l’accesso universale ed equo all’acqua potabile che sia sicura ed economica per tutti».
Purtroppo tale proposito non viene esplicitato tra le azioni dell’obiettivo 11, «Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili», poiché garantire la sicurezza dell’acqua per uso umano è compito delle amministrazioni locali e costituisce una precondizione per l’accesso universale all’acqua.
La Strategia Nazionale per lo sviluppo sostenibile non parla in modo esplicito di tale accesso, che può essere individuato solo nella sezione «Persone» come contrasto alla povertà e promozione della salute e del benessere, e nella sezione «Pianeta» a livello di gestione integrata delle risorse idriche a tutti i livelli di pianificazione.
Il riferimento all’acqua come diritto umano è spesso assente in documenti, atti e programmi assunti dai decisori politici e non basta il richiamo alle normative quadro anche internazionali, quali la direttiva europea sulla qualità delle acque, che affrontano le problematiche sulla sicurezza, la tutela e la gestione dei servizi, ma non garantiscono l’accesso universale.
Un’iniziativa estremamente importante e significativa realizzata in Europa è stata la campagna di raccolta firme per il diritto all’acqua e una sua legislazione, che ha visto quasi due milioni di adesioni, ha spinto la Commissione dell’UE a rispondere alla richieste.
Come concretizzarlo in Italia
Le prospettive pratiche possono avere orizzonti differenti. In primo luogo nello scenario globale il nostro paese potrebbe sollecitare l’adozione di un protocollo internazionale che concretizzi il diritto umano all’acqua e definisca gli obblighi per i vari stati.
Sul piano nazionale gli obiettivi potrebbero essere approvare una legislazione sull’acqua che ne definisca, riconosca e garantisca il diritto e la gestione pubblica, nonché l’inserimento dell’accesso universale all’acqua come diritto umano negli impegni della Strategia italiana di sviluppo sostenibile e della relativa Agenda urbana.