È stato presentato alla fine di aprile il rapporto nazionale sugli asili nido promosso da Con i Bambini – impresa sociale e dalla Fondazione openpolis, nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. L’obiettivo è favorire la conoscenza e l’attenzione sulla condizione dei minori in Italia, a partire dall’offerta di opportunità educative, culturali e sociali, aiutando i decisori mediante l’elaborazione di analisi e approfondimenti originali.
I rapporti hanno consentito la creazione di una banca dati che contribuisce alla conoscenza dei fenomeni, sia su scala nazionale sia su quella comunale e addirittura sub-comunale.
In sintesi
In Italia i residenti compresi tra zero e due anni nel 2020 erano 1,3 milioni, i posti negli asili nido e nei servizi per la prima infanzia nel 2018, anno degli ultimi dati disponibili, erano poco più di 330.000 (25,5%), quindi ne dovrebbero mancare circa 100.000 a livello nazionale per raggiungere l’obiettivo europeo fissato al 33% (429.000 posti) nel consiglio europeo svoltosi a Barcellona nel 2002, recepito anche dalla normativa nazionale.
Dalla ricerca emergono ampi divari, non solo tra Nord e Sud, ma anche tra i centri urbani e le altre aree. I dati mostrano che a fronte di un Centro-Nord che con 32 posti ogni 100 bambini ha quasi raggiunto il traguardo europeo e dove in media i due terzi dei comuni offrono il servizio, nel Mezzogiorno i posti ogni 100 bambini sono solo 13,5 e il servizio è garantito in meno della metà dei comuni (47,6%). Esaminando le singole città le distanze aumentano ancora: a Bolzano vi sono quasi 70 posti ogni 100 bambini, mentre a Catania e Crotone sono solo cinque. Notevole anche la differenza tra i comuni capoluogo e quelli di provincia (13,8 punti).
Il divario nord sud
Approfondiamo qualche dato in merito. La differenza tra le due macro aree del Paese è di 18,5 punti percentuali, come poco sopra evidenziato, e gli ultimi dieci capoluoghi di provincia con meno servizi si trovano nel mezzogiorno, mentre nei primi dieci solo uno, Sassari, non è del centro-nord. Tutte le province dell’Emilia-Romagna, tranne Piacenza che è al 25,8%, superano i 33 posti ogni 100 residenti da zero a due anni; in Toscana sono sei le province oltre tale soglia.
Nella situazione di ritardo del sud e delle isole spiccano i dati relativi alla Sardegna (29,3%), alle province di Lecce, Teramo e Chieti, le uniche sopra il 20%.
Anche nelle regioni che hanno le medie più basse esistono livelli di copertura molto differenti. «In Sicilia, l’offerta potenziale presente nella città metropolitana di Messina (17 posti ogni 100 bambini) è quasi tre volte quella della provincia di Caltanissetta (6,2%). In Calabria il dato di Crotone (16,3%) si contrappone a quello di Cosenza (7,7%). In Campania, l’offerta potenziale di Salerno (13 posti ogni 100 bambini) è quasi doppia rispetto a Caserta (6,6%). In Puglia, sono soprattutto le province meridionali ad avere una maggiore copertura: Lecce (22,4%), Brindisi (18,7%), Taranto (18,3%). Minore la copertura nella città metropolitana di Bari (15,3%) e nelle province di Foggia (14,3%) e Barletta-Andria Trani (12,2%)».
La situazione piemontese
Esaminando la realtà della nostra regione è purtroppo da rilevare come sia in coda tra quelle del nord.
Infatti, i dati dell’indagine pongono il Piemonte all’ultimo posto tra le regioni settentrionali con 28,6 posti ogni 100 bimbi.
I numeri riferiti al 2020 forniti dall’amministrazione regionale, più aggiornati rispetto a quelli della ricerca, mostrano un miglioramento, con l’indice al 30,48% nel rapporto posti nido e bambini, ma la sola provincia di Biella supera la soglia del 33% col 38,49%, quelle di Torino e Novara sono molto vicine all’obiettivo, rispettivamente al 32,15% e al 31,13%, mentre le altre appaiono decisamente lontane (Cuneo 21,59% e VCO 22,17%).
In Piemonte i comuni coperti da almeno un servizio da zero a due anni sono 401 su 1181, pari al 33,95%, ma anche in questo caso vi sono notevoli differenze territoriali: si passa dal 52,87% della provincia di Novara e dal 47,44% di Torino per arrivare al 23/24% di Asti, VCO, Alessandria e Vercelli, con Biella al 35,14% e Cuneo al 29,55%.
Il divario tra grandi e piccoli centri
L’altra disuguaglianza emerge, in generale, tra i capoluoghi e la provincia.
Nei maggiori centri il servizio è più diffuso, anche perché l’ampiezza della domanda è superiore rispetto ai comuni delle cosiddette aree interne, dove la stessa è debole e dispersa, ragione che ha «storicamente limitato lo sviluppo di una rete di servizi»: infatti, complessivamente tali territori sono più distanti da quelli essenziali, sanitari, della mobilità e dell’istruzione.
Comprendere e affrontare tali differenze è essenziale per realizzare efficaci politiche in materia e investire le risorse. Ad esempio gli incentivi economici sono fondamentali per promuovere l’uso del servizio, ma è altrettanto indispensabile investire sul potenziamento della rete sul territorio per coprire le aree carenti.
Ecco i dati riferiti alle città con i servizi più diffusi.
E quelle con le maggiori carenze.
Riguardo alle differenze tra città capoluogo e i territori esterni, in alcune province si assiste a un’offerta distribuita in modo omogeneo, in altre invece è concentrata solo nei capoluoghi e nei centri principali.
Una menzione particolare meritano le vaste aree montane presenti nel nostro Paese, nella quali la carenza di servizi e di opportunità economiche ha provocato un progressivo spopolamento: «in queste realtà la presenza di servizi prima infanzia può rappresentare un presidio ancora più importante», tenendo conto che «oltre un bambino con meno di 3 anni su 5 vive in aree interne e quasi il 7% abita in un comune periferico o ultraperiferico». Sono infatti quasi 100.000 i bambini di quella fascia d’età residenti in comuni distanti oltre 40 minuti da un servizio per l’infanzia.
«L’offerta di asili nido varia molto se confrontata con la classificazione per aree interne. Nei poli supera il 30%, nei comuni cintura è poco sopra il 23%. Nelle aree interne non raggiunge il 20%, con differenze tra comuni intermedi (19,4%), periferici (18,6%) e ultraperiferici (13,5%)».
Ma non in tutte le regioni l’offerta nei comuni periferici è sotto il 20%: in Toscana, Emilia-Romagna, Umbria e Veneto supera il 25% e in altre otto supera la media nazionale.
Una crescita troppo lenta
L’incremento dell’offerta potenziale di servizi per la prima infanzia è in costante salita: nel 2013 i posti erano il 22,5% e nel 2018, in base agli ultimi dati disponibili, erano il 25,5%. Se si tiene conto che nel 2016 erano il 23% si nota un progresso di 1,5 punti in tre anni: ma ciò è ancora insufficiente.
La povertà educativa
I dati, seppure in grado di evidenziare le situazioni, non riescono a mettere in luce il tema di fondo: i problemi educativi che affondano le radici nella prima infanzia e si consolidano condizionando l’età evolutiva e, in prospettiva, tutta l’esistenza.
«È ormai acquisito nella letteratura come i primi 1.000 giorni di vita del bambino siano quelli più determinanti per il suo sviluppo successivo. È a partire da questa fase, in cui i bambini sono così ricettivi, che va garantito a tutti – a prescindere dalle condizioni della famiglia – un ambiente di crescita quanto più favorevole possibile. Vanno in questa direzione le ricerche sulla genetica, che hanno evidenziato l’influenza ambientale sul funzionamento dei geni. E ancora di più le neuroscienze, che hanno fatto emergere il ruolo dei fattori ambientali sullo sviluppo delle reti neurali del bambino. Specie nei primi anni di vita, in cui questa formazione procede ad una velocità che non raggiungerà mai più negli anni successivi.
È sulla base di queste evidenze che gli standard internazionali fissati da Unicef pongono in primo piano la cura della prima infanzia, per le sue conseguenze di lungo periodo. Nell’interesse del singolo bambino, ovviamente, ma anche per l’intera società».
Ciò significa che l’attenzione verso i primi anni di vita deve essere centrale nella definizione delle politiche pubbliche nazionali e locali. Se nella fascia successiva, quella coperta dalla scuola materna e dalla primaria l’Italia è tra i paesi dell’UE con il maggiore sviluppo del servizio, lo stesso non si può affermare per la cura dei primi 1.000 giorni.
La crescita dei servizi, infatti, nonostante i miglioramenti, appare ancora carente rispetto agli obiettivi indicati dal decreto legislativo 65 del 2017 che ha istituito il sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino ai sei anni, riconoscendo definitivamente la natura educativa dei servizi per la prima infanzia, superando l’approccio soprattutto assistenziale della legge 1044 del 1971 che istituiva gli asili nido comunali e che fu un passo avanti fondamentale per l’epoca. Ma se la diffusione è quella prima esposta la strada è ancora lunga.
Quali altre conseguenze
Oltre a possedere importantissime ricadute sul piano educativo i servizi per l’infanzia hanno una funzione più generale, sociale.
Un primo effetto, non certamente riconducibile solo alla carenza di servizi bensì a problematiche più ampie e complesse, è sul lavoro femminile: emerge una correlazione tra offerta di servizi e occupazione, come si evince dalla seguente grafico.
Un incremento degli asili nido può essere un significativo contributo per la riduzione dei divari di genere, non solo per quanto riguarda il lavoro e l’imprenditorialità femminile, ma in generale per una migliore qualità della vita.
«Un investimento forte sulla prima infanzia può infatti aiutare a colmare tanti divari diversi: educativi, di genere, territoriali, socio-economici. Per questo il potenziamento del sistema integrato 0-6 anni, e in particolare per la fascia 0-3, deve essere considerato una priorità nazionale».
È necessario intervenire
Per contrastare le disuguaglianze nei servizi educativi per l’infanzia di buona qualità è indispensabile vi siano precise scelte politiche, progetti in grado di affrontare le differenti situazioni e investimenti adeguati. Nel nostro Paese tale attenzione è stata sempre scarsa, le risorse insufficienti e disponibili in modo troppo diverso da territorio a territorio.
Il Piano italiano di ripresa e resilienza prevede un forte investimento per la scuola e sottolinea la necessità di incrementare l’offerta per gli asili nido allo scopo di raggiungere l’obiettivo europeo del 33% entro il 2026.
Diventa fondamentale, a partire dai dati, potenziare soprattutto la nascita di nuove strutture dove la carenza è maggiormente evidente, vale a dire nel sud e nei piccoli centri. Non basta cioè raggiungere il traguardo indicato dall’UE, che è relativo a una media nazionale, è necessario ridurre le troppo forti disuguaglianze tra i territori.
È assolutamente importante sottolineare come le risorse destinate rappresentino un investimento della società nell’immediato e per le prossime generazioni.