una fede vissuta nel silenzio e nell’azione
Il testimone
Sono passati più di sessant’anni dalla morte prematura di quello che, all’epoca, era il segretario generale dell’Organizzazione delle Nazione Unite e, molto probabilmente, in pochi ne conoscono la figura di grande statista e di uomo di profonda fede: Dag Hammarskjöld.
Nel suo incarico all’ONU fu uomo di pace e intervenne, come mediatore in numerose crisi internazionali. La sua morte, avvenuto a causa di un incidente aereo in Africa, nel territorio dell’attuale Zambia, ha destato fin dall’inizio il sospetto di essere stata provocata da un attentato ordito proprio per il suo impegno nel risolvere una crisi internazionale in Congo, impegno che dava fastidio a molti.
Di lui, seppure famoso, poco si conosceva, fino alla pubblicazione postuma del diario nel quale esprimeva il profondo di se stesso, il suo rapporto con Dio e il proprio cammino spirituale.
La vita
Dag Hjalmar Agne Carl Hammarskjöld nacque a Jönköping il 29 luglio del 1905 ultimo dei quattro figli maschi di Hjalmar Hammarskjöld, uomo politico, ministro dell’istruzione e poi primo ministro svedese dal 1914 al 1917, e Agnes Almqvist, parente del poeta Carl Jonas Love Almquist. Durante l’infanzia e l’adolescenza seguì gli spostamenti del padre: dapprima in Danimarca, poi a Uppsala, poi a Stoccolma, nei tre anni in cui il padre fu al vertice del governo, poi ancora a Uppsala.
La famiglia e l’educazione ricevuta ebbero un grande impatto sulla sua personalità e la carriera futura. Egli stesso dichiarò: «da generazioni di soldati e funzionari governativi da parte di mio padre ho ereditato la convinzione che nessuna vita fosse più soddisfacente di quella di servizio disinteressato al proprio paese o all’umanità. Da parte degli studiosi e dei sacerdoti, da parte di madre, ho ereditato la convinzione che, nel senso molto radicale dei Vangeli, tutti gli uomini erano uguali come figli di Dio, e dovrebbero essere incontrati e trattati da noi come nostri maestri in Dio».
Dopo gli studi universitari in economia e giurisprudenza insegnò un anno all’Università di Stoccolma, per divenire segretario della commissione governativa sulla disoccupazione, carica che ricoprì dal 1930 al ‘34, per poi passare alla Banca di Svezia con lo stesso incarico. Nel 1936 entrò alle dipendenze del Ministero delle Finanze ricoprendo diversi incarichi, lavorando anche tre anni a Parigi. Nel 1941 venne nominato presidente della Banca Nazionale, ruolo che mantenne fino al 1948 per entrare al Ministero degli Esteri, prima come segretario, poi dal 1951 come vice ministro, svolgendo un ruolo importante nel plasmare la politica finanziaria svedese. È significativo ricordare che pur essendo inserito in un governo socialdemocratico non aderì ad alcun partito, considerandosi sempre politicamente indipendente.
In veste di vice ministro fu vicepresidente della delegazione svedese alla VI Sessione dell’Assemblea generale dell’ONU a Parigi (1951–1952) e poi Presidente alla sessione successiva (New York 1952-1953). Il 7 aprile 1953 venne eletto all’unanimità secondo segretario generale, succedendo al norvegese Trygve Lie, per poi essere confermato a tale prestigioso incarico nel 1957.
Scelto come soluzione di compromesso, in quanto amministratore competente, non ebbe timore di contrapporsi alle nazioni più potenti per difendere gli interessi degli stati più piccoli, mettendo il proprio potere a servizio della prevenzione dei conflitti e degli obiettivi della Carta delle Nazioni Unite.
Nel suo ruolo intraprese una riorganizzazione dell’ONU per renderla più efficace, la creazione delle basi per le operazioni di mantenimento della pace e attuò con successo una strategia di diplomazia preventiva per affrontare le situazioni difficili. Si impegnò a praticare un’autentica indipendenza del suo ufficio, che ha caratterizzato lo stile dei segretari generali a lui succeduti. Face realizzare anche una sala di meditazione nella sede delle Nazioni Unite.
In quegli anni venne insignito della laurea honoris causa nelle principali università degli USA, canadesi e britanniche; nel 1954 successe al padre come membro dell’Accademia di Svezia.
Morì nella notte tra il 17 e il 18 settembre 1961 in un incidente aereo nei pressi di Ndola, nell’allora Rhodesia del Nord oggi Zambia, le cui cause non furono mai chiarite, durante una missione per gestire la crisi congolese e negoziare la pace.
Nello stesso anno gli venne attribuito il Premio Nobel per la Pace alla memoria; nella motivazione si legge: «in segno di gratitudine per tutto quello che ha fatto, per quello che ha ottenuto, per l’ideale per il quale ha combattuto: creare pace e magnanimità tra le nazioni e gli uomini».
L’incidente aereo
I dubbi sulla sua morte furono subito sollevati da diverse personalità e fonti. L’ex presedente USA Harry Truman, ad esempio, dichiarò che Hammarskjöld «Era sul punto di ottenere qualcosa quando l’hanno ucciso. Notate che ho detto “quando l’hanno ucciso”». Il politico americano si è sempre rifiutato di fornire ulteriori dettagli o di tornare sull’argomento, ma le sue parole hanno dato adito per anni a sospetti e ricostruzioni alternative. In ogni caso le circostanze del disastro aereo non sono mai state ufficialmente chiarite e molti storici manifestano le stesse perplessità di Truman. Ad esempio Luciano Canfora in un libro del 2002 scrisse: «E ora, dopo quarant’anni, nelle pagine molto interne dei giornali, leggiamo quello che abbiamo sempre saputo: che l’Union Minière condannò a morte (per “incidente aereo”) anche Hammarskjöld, il segretario generale dell’ONU, colpevole di opporsi alla secessione del Katanga, preda avita dell’Union Minière». Più recentemente, nel 2019, il giornalista danese Mads Brügger realizzò un documentario dal titolo Cold Case Hammarskjöld nel quale ha esposto nuovi indizi che punterebbero verso un pilota belga, all’epoca al servizio dei ribelli separatisti, su cui già a suo tempo erano circolate voci di un possibile coinvolgimento.
Il diario
Dopo la sua morte, nel suo appartamento di New York è stato ritrovato un diario intimo intitolato Vägmärken, contenente brevi pensieri da lui scritti nel corso degli anni. Allegata agli scritti era presente una lettera, indirizzata a un amico, in cui Hammarskjöld spiegava come avesse iniziato ad appuntare certe riflessioni senza avere alcuna intenzione di pubblicarle, tuttavia lo autorizzava a un’eventuale diffusione, che riteneva utile a fornire un’idea della sua vera personalità. Il diario, pubblicato in Italia col titolo Tracce di cammino, è definito dall’autore «una sorta di libro bianco che narra i miei negoziati con me stesso e con Dio». Da esso emerge infatti la spiritualità di Hammarskjöld, un aspetto fino ad allora ignoto al pubblico.
Il commento
Gli abitanti del nord dell’Europa sono considerati, secondo uno stereotipo consolidato, come persone fredde, poco inclini alle emozioni. Dag Hammarskjöld non ha fatto eccezione, in quanto era descritto proprio come un politico razionale, abile, abituato a lavorare in modo indefesso, assorbito dalle sue attività. Il diario scoperto dopo la sua morte mostra una personalità più complessa, quella di un lettore appassionato dei maestri della spiritualità antica e moderna, da San Giovanni della Croce a Martin Buber, quella di un animo sensibile, intuitivo, ricco di umiltà, quella di un uomo dalla fede autentica.
La sua fede
Fede che guidò tutta la sua vita e il suo essere un politico, ma senza ostentazioni, “discreta”, non sbandierata, difficile da inquadrare, ma sempre quella di una persona che ha abbandonato se stesso nelle mani di Dio. Una fede ispirata dalle parole di Giacomo per le quali essa è morta senza le opere, che la mostrano. Nel diario egli la confessa, ne spiega il significato e descrive la sua vita spirituale, attraverso riflessioni e profonde analisi di se stesso, anche delle debolezze, quali l’ambizione e l’orgoglio. Emerge la convinzione che quanto più si penetra dentro il proprio essere, si è capaci di ascoltarsi, diventa possibile ascoltare gli altri, parlare e comunicare.
Il suo approccio al lavoro fu fortemente legato alla sua appartenenza alla chiesa luterana, che lo portava a interpretale la professione come una missione, quasi una vocazione divina. La fede per lui non fu un’adesione intellettuale, ma un modo di essere che si espresse nella prassi, una mistica dell’azione più che della contemplazione, una spiritualità vissuta nella solitudine, con riservatezza, ma con la convinzione di servire l’umanità e Dio.
Segretario generale dell’ONU
La ragione della sua riservatezza in ambito religioso è da ricercare nella serietà con la quale affrontò il compito di essere segretario generale dell’ONU. Era convinto, infatti, che una sua esplicita adesione a una chiesa o a una confessione lo avrebbe posto più vicino ad alcuni e più lontano da altri, minando il suo desiderio di essere imparziale, sopra le parti, di rappresentare un funzionario civile internazionale a servizio della sua organizzazione.
L’importanza che egli attribuiva alla spiritualità emerse comunque da subito, con la sala di meditazione che volle nella sede dell’ONU a New York. Nel corso dell’inaugurazione dichiarò: «Ciascuno di noi si porta dentro un nocciolo di quiete, circondato di silenzio. Questo palazzo, dedicato al lavoro e alla discussione al servizio della pace, deve avere una sala dedicata al silenzio, in senso esteriore, e alla quiete in senso interiore. L’obiettivo è stato creare in questa saletta un luogo le cui porte possano essere aperte ai terreni infiniti del pensiero e della preghiera. [….] Secondo un antico detto, il senso di un vaso non è il suo guscio, ma il vuoto. In questa sala è proprio così. La sala è dedicata a coloro che si recano qui per riempire il vuoto, con ciò che riescono a trovare nel loro centro interiore di quiete».
Hammarskjöld è stato un uomo di pace, occupandosi, come segretario generale dell’ONU, delle crisi più importanti del suo tempo, quelle mediorientale, libanese, ungherese, e “inventando” le forze armate di peace keeping internazionali, da allora uno strumento di controllo delle situazioni di conflitto.
L’impegno coerente nel perseguire la pace si rivelò principalmente nel suo costante tentativo di mantenersi il più possibile neutrale nelle crisi internazionali, poiché nella sua visione la neutralità si poneva principalmente come problema etico, prima che politico; ma era una neutralità attiva che implicava l’intervento, la decisione, la sua partecipazione nelle singole questioni.
Durante gli anni della sua attività all’ONU, caratterizzati da notevoli tensioni internazionali, subì diversi attacchi soprattutto da parte di quegli stati che, a causa del suo essere sopra le parti, non venivano accontentati nelle loro richieste.
Parlando dell’ONU la descriveva come il «sogno dell’umanità», uno strumento per costruire il futuro del mondo in modo positivo, per il bene dell’umanità.
La personalità
La sua riservatezza guidò anche il suo stile di diplomatico: raramente fece trapelare notizie o particolari su incontri o colloqui con i rappresentanti dei vari stati. La sua fu una diplomazia della composizione, poiché agiva quasi in sordina, cercando però di attivare tutti i canali a sua disposizione per favorire il dialogo delle parti in causa.
Dal diario traspare un grande senso di solitudine, l’essere una persona tormentata e sola di fronte alle sfide quotidiane. Pur essendo un uomo di successo, con una rapida carriera, colto, benestante, negli scritti dei primi anni sono frequenti immagini angosciose, la ricerca di un senso alla propria vita: «Chiedo l’assurdo: che la vita abbia un senso. Mi batto per l’impossibile: che la mia vita ottenga un senso».
Interpretò la sua esistenza nei termini di rinuncia personale e di sacrificio per il bene degli altri, e in tutto ciò trovò il senso della sua vita: come dono.
Un ulteriore elemento emergente dal diario è la convinzione della «santità del quotidiano», del porsi nelle mani di Dio, nell’essere suo strumento nell’agire per il bene di tutti.
Gli incarichi ricevuti, anche il più prestigioso di segretario generale dell’ONU, furono da lui interpretati come dono, e non quindi come affermazione di sé, in una prospettiva di negazione del proprio egocentrismo, da vivere dunque con umiltà, riserbo, rifiuto di mettersi in evidenza. Non bisogna pensare però che tali convinzioni e tali atteggiamenti fossero privi di contraddizioni e necessitassero di una costante lotta con se stesso.
Hammarskjöld è stato spesso descritto come un uomo del Rinascimento del ventesimo secolo per i suoi vasti interessi. Conosceva l’inglese, il francese e il tedesco e poteva conversare liberamente di musica, letteratura, poesia, arte e cultura, nonché di filosofia e teologia.
Anche se le richieste del suo incarico erano grandi, servì volentieri come membro dell’Accademia svedese, l’organismo che assegna il Premio Nobel per la letteratura. Trovò anche il tempo per tradurre opere di filosofi e poeti come Saint-John Perse, fotografare l’Everest per il National Geographic, impegnarsi nella riprogettazione della sala di meditazione delle Nazioni Unite e raccontare le sue escursioni sulle montagne svedesi come presidente dello Swedish Alpinist Club.
Tra le pagine del suo diario la morte è presente come tema di riflessione. I suoi pensieri spesso si soffermano su di essa e sulla necessità di esserne preparati e sembrano quasi un presagio della sua terribile fine di cui non sembrava avere paura: il suo è un darsi, consapevole della sua missione. Poco prima di morire, infatti, aveva scritto: «alla domanda se ho il coraggio di andare verso la fine io rispondo SÌ senza pensarci due volte». Aveva chiesto «qualcosa per cui vivere e abbastanza grande per cui morire», desiderava una fine che fosse compimento della vita e, alla luce degli avvenimenti, è stato accontentato. Anche attraverso la sua morte, Hammarskjöld ha dato un esempio di santità nella vita quotidiana che lo rende un testimone significativo dell’impegno politico e della fede.
Forse per questo suo operare sempre con grande dedizione, ma in sordina, dissociando il proprio agire dalla propria persona che, nonostante il valore della sua attività e la sua morte misteriosa è così poco ricordato per il suo operato.
Il commento
Gli abitanti del nord dell’Europa sono considerati, secondo uno stereotipo consolidato, come persone fredde, poco inclini alle emozioni. Dag Hammarskjöld non ha fatto eccezione, in quanto era descritto proprio come un politico razionale, abile, abituato a lavorare in modo indefesso, assorbito dalle sue attività. Il diario scoperto dopo la sua morte mostra una personalità più complessa, quella di un lettore appassionato dei maestri della spiritualità antica e moderna, da San Giovanni della Croce a Martin Buber, quella di un animo sensibile, intuitivo, ricco di umiltà, quella di un uomo dalla fede autentica.
La sua fede
Fede che guidò tutta la sua vita e il suo essere un politico, ma senza ostentazioni, “discreta”, non sbandierata, difficile da inquadrare, ma sempre quella di una persona che ha abbandonato se stesso nelle mani di Dio. Una fede ispirata dalle parole di Giacomo per le quali essa è morta senza le opere, che la mostrano. Nel diario egli la confessa, ne spiega il significato e descrive la sua vita spirituale, attraverso riflessioni e profonde analisi di se stesso, anche delle debolezze, quali l’ambizione e l’orgoglio. Emerge la convinzione che quanto più si penetra dentro il proprio essere, si è capaci di ascoltarsi, diventa possibile ascoltare gli altri, parlare e comunicare.
Il suo approccio al lavoro fu fortemente legato alla sua appartenenza alla chiesa luterana, che lo portava a interpretale la professione come una missione, quasi una vocazione divina. La fede per lui non fu un’adesione intellettuale, ma un modo di essere che si espresse nella prassi, una mistica dell’azione più che della contemplazione, una spiritualità vissuta nella solitudine, con riservatezza, ma con la convinzione di servire l’umanità e Dio.
Segretario generale dell’ONU
La ragione della sua riservatezza in ambito religioso è da ricercare nella serietà con la quale affrontò il compito di essere segretario generale dell’ONU. Era convinto, infatti, che una sua esplicita adesione a una chiesa o a una confessione lo avrebbe posto più vicino ad alcuni e più lontano da altri, minando il suo desiderio di essere imparziale, sopra le parti, di rappresentare un funzionario civile internazionale a servizio della sua organizzazione.
L’importanza che egli attribuiva alla spiritualità emerse comunque da subito, con la sala di meditazione che volle nella sede dell’ONU a New York. Nel corso dell’inaugurazione dichiarò: «Ciascuno di noi si porta dentro un nocciolo di quiete, circondato di silenzio. Questo palazzo, dedicato al lavoro e alla discussione al servizio della pace, deve avere una sala dedicata al silenzio, in senso esteriore, e alla quiete in senso interiore. L’obiettivo è stato creare in questa saletta un luogo le cui porte possano essere aperte ai terreni infiniti del pensiero e della preghiera. [….] Secondo un antico detto, il senso di un vaso non è il suo guscio, ma il vuoto. In questa sala è proprio così. La sala è dedicata a coloro che si recano qui per riempire il vuoto, con ciò che riescono a trovare nel loro centro interiore di quiete».
Hammarskjöld è stato un uomo di pace, occupandosi, come segretario generale dell’ONU, delle crisi più importanti del suo tempo, quelle mediorientale, libanese, ungherese, e “inventando” le forze armate di peace keeping internazionali, da allora uno strumento di controllo delle situazioni di conflitto.
L’impegno coerente nel perseguire la pace si rivelò principalmente nel suo costante tentativo di mantenersi il più possibile neutrale nelle crisi internazionali, poiché nella sua visione la neutralità si poneva principalmente come problema etico, prima che politico; ma era una neutralità attiva che implicava l’intervento, la decisione, la sua partecipazione nelle singole questioni.
Durante gli anni della sua attività all’ONU, caratterizzati da notevoli tensioni internazionali, subì diversi attacchi soprattutto da parte di quegli stati che, a causa del suo essere sopra le parti, non venivano accontentati nelle loro richieste.
Parlando dell’ONU la descriveva come il «sogno dell’umanità», uno strumento per costruire il futuro del mondo in modo positivo, per il bene dell’umanità.
La personalità
La sua riservatezza guidò anche il suo stile di diplomatico: raramente fece trapelare notizie o particolari su incontri o colloqui con i rappresentanti dei vari stati. La sua fu una diplomazia della composizione, poiché agiva quasi in sordina, cercando però di attivare tutti i canali a sua disposizione per favorire il dialogo delle parti in causa.
Dal diario traspare un grande senso di solitudine, l’essere una persona tormentata e sola di fronte alle sfide quotidiane. Pur essendo un uomo di successo, con una rapida carriera, colto, benestante, negli scritti dei primi anni sono frequenti immagini angosciose, la ricerca di un senso alla propria vita: «Chiedo l’assurdo: che la vita abbia un senso. Mi batto per l’impossibile: che la mia vita ottenga un senso».
Interpretò la sua esistenza nei termini di rinuncia personale e di sacrificio per il bene degli altri, e in tutto ciò trovò il senso della sua vita: come dono.
Un ulteriore elemento emergente dal diario è la convinzione della «santità del quotidiano», del porsi nelle mani di Dio, nell’essere suo strumento nell’agire per il bene di tutti.
Gli incarichi ricevuti, anche il più prestigioso di segretario generale dell’ONU, furono da lui interpretati come dono, e non quindi come affermazione di sé, in una prospettiva di negazione del proprio egocentrismo, da vivere dunque con umiltà, riserbo, rifiuto di mettersi in evidenza. Non bisogna pensare però che tali convinzioni e tali atteggiamenti fossero privi di contraddizioni e necessitassero di una costante lotta con se stesso.
Hammarskjöld è stato spesso descritto come un uomo del Rinascimento del ventesimo secolo per i suoi vasti interessi. Conosceva l’inglese, il francese e il tedesco e poteva conversare liberamente di musica, letteratura, poesia, arte e cultura, nonché di filosofia e teologia.
Anche se le richieste del suo incarico erano grandi, servì volentieri come membro dell’Accademia svedese, l’organismo che assegna il Premio Nobel per la letteratura. Trovò anche il tempo per tradurre opere di filosofi e poeti come Saint-John Perse, fotografare l’Everest per il National Geographic, impegnarsi nella riprogettazione della sala di meditazione delle Nazioni Unite e raccontare le sue escursioni sulle montagne svedesi come presidente dello Swedish Alpinist Club.
Tra le pagine del suo diario la morte è presente come tema di riflessione. I suoi pensieri spesso si soffermano su di essa e sulla necessità di esserne preparati e sembrano quasi un presagio della sua terribile fine di cui non sembrava avere paura: il suo è un darsi, consapevole della sua missione. Poco prima di morire, infatti, aveva scritto: «alla domanda se ho il coraggio di andare verso la fine io rispondo SÌ senza pensarci due volte». Aveva chiesto «qualcosa per cui vivere e abbastanza grande per cui morire», desiderava una fine che fosse compimento della vita e, alla luce degli avvenimenti, è stato accontentato. Anche attraverso la sua morte, Hammarskjöld ha dato un esempio di santità nella vita quotidiana che lo rende un testimone significativo dell’impegno politico e della fede.
Forse per questo suo operare sempre con grande dedizione, ma in sordina, dissociando il proprio agire dalla propria persona che, nonostante il valore della sua attività e la sua morte misteriosa è così poco ricordato per il suo operato.