Adriano Olivetti era descritto come un uomo affettuoso, goffo e timido. Amava mangiare dolci e credeva che, indagando le pieghe della firma di una persona su un foglio bianco, si potesse intuirne la forza e le fragilità. Ma, soprattutto, era un industriale di grande abilità e allo stesso tempo aveva una passione politica che, con il suo carico di utopia, era insieme simile e profondamente diversa rispetto a quella del suo tempo.
I suoi 59 anni, conclusisi il 27 febbraio del 1960 su un treno che da Milano lo portava a Losanna, sono stati paradigmatici del secolo scorso, ma hanno rappresentato bene la contraddizione che egli ha incarnato per la cultura, la vita pubblica e l’industria dell’Italia.
La famiglia
Adriano Olivetti nacque a Ivrea l’11 aprile 1901, primo di sei fratelli, da Camillo, di origine ebraica, e da Luisa Revel, valdese. Il padre, ingegnere eclettico e geniale inventore, nel 1908 fondò a Ivrea la prima fabbrica italiana di macchine per scrivere.
Adriano seguì gli studi all’Istituto tecnico, indirizzo fisico-matematico, subendo in parte l’influenza paterna e pentendosi in seguito di non aver fatto il liceo classico per esprimere la sua inclinazione verso la cultura umanistica. Negli anni della formazione fu molto attento al dibattito sociale e politico; frequentò ambienti liberali e riformisti, collaborò alle riviste L’azione riformista e Tempi nuovi ed entrò in contatto con Piero Gobetti e Carlo Rosselli.
Suo padre era socialista. Durante il fascismo nascose nella casa di Ivrea Filippo Turati, ricercato dalla polizia e, insieme a Ferruccio Parri e a Sandro Pertini, lo aiutò a espatriare. Dopo essersi laureato in chimica industriale al Politecnico di Torino, nel 1924, Adriano iniziò l’apprendistato nell’azienda paterna come operaio. Da questa esperienza, trasse la convinzione che «occorre capire il nero di un lunedì nella vita di un operaio, altrimenti non si può fare il mestiere di manager, non si può dirigere se non si sa che cosa fanno gli altri».
Nel 1924 sposò Paola Levi, figlia del patologo Giuseppe e sorella di Natalia Levi Ginzburg.
L’esperienza americana
Il momento più significativo nella vita del giovane Olivetti è rappresentato dal suo soggiorno negli Stati Uniti, dal luglio 1925 sino al gennaio 1926. Durante il viaggio visitò un centinaio di fabbriche, soprattutto meccaniche. Una grande lezione gli venne dalla visita agli stabilimenti Ford dove ebbe occasione di entrare in contatto con la filosofia fordista e di conoscere da vicino l’applicazione dei metodi di organizzazione scientifica del lavoro, rispetto ai quali elaborò una visione personale e innovativa.
Tornato in patria, introdusse, a fianco del “cronometrista”, la figura dell’”allenatore” che studia il posto di lavoro, suggerendo modifiche e strumenti specifici e, solo dopo questa razionalizzazione, dimostra come attuare i tempi di fase, lavorando lui stesso per un certo periodo. I benefici riguardano sia l’operaio, che raggiunge senza eccessiva difficoltà i tempi richiesti, sia la qualità del prodotto finito e l’uniformità delle linee.
La riflessione sviluppata da Olivetti nel corso della sua esperienza negli Stati Uniti, anche attraverso lo studio di una vasta produzione teorica, lo portò a una duplice consapevolezza. In primo luogo capì la necessità di passare da forme di apprendimento del dato tecnico fini a se stesse a forme di apprendimento dotate di senso, basate, cioè, sulla comprensione delle connessioni non solo tra il dato tecnico e il contesto, ma inerenti anche le relazioni strutturali da cui dipendono tali connessioni. In secondo luogo constatò che il ritardo tra l’Europa e il Nord America, alla fine degli anni Venti, non era tanto di tipo tecnico, ma di tipo organizzativo e che inserire il fattore organizzativo nelle dinamiche d’impresa implicava la definizione di criteri di priorità, di gerarchie inerenti sia la configurazione tecnica dell’impresa, sia i meccanismi della decisione dai quali dipendevano le gerarchie socio-organizzative.
Propose quindi un vasto programma di rinnovamento aziendale: organizzazione decentrata del personale, direzione per funzioni, razionalizzazione di tempi e metodi di montaggio, sviluppo della rete commerciale in Italia e all’estero, avviando anche il progetto della prima macchina per scrivere portatile che uscì nel 1932, col nome di MP1; introdusse inoltre il Servizio pubblicità, con la collaborazione di importanti artisti e designer.
Direttore generale
Il 1932 segnò una svolta decisiva nel percorso di Adriano. Il 4 dicembre di quell’anno, infatti, l’assemblea degli azionisti ratificò la sua nomina a direttore generale, rendendo possibile il pieno dispiegamento della sua visione innovativa: la nuova organizzazione fece aumentare in maniera significativa la produttività della fabbrica e le vendite dei prodotti.
Cominciò così a delinearsi quella che si sarebbe consolidata come “la matrice olivettiana”, una sintesi organizzativa che aveva al centro una progettualità in costante evoluzione, non solo rispetto all’impresa, ma anche riguardo alle persone che in essa operavano, mediante un processo di costante attraversamento e integrazione di competenze professionali specialistiche.
Non sempre Adriano trovò sostegno nella famiglia soprattutto per le sue iniziative inerenti la sua azione solidaristica nei confronti della comunità, dello sviluppo della cultura, del design, dell’architettura, che richiedevano, inevitabilmente, forti investimenti.
L’adesione al fascismo e alle idee di Mussolini non ci fu mai e nemmeno vi fu una collaborazione stretta con la burocrazia statale.
Politico ed editore
Durante la seconda guerra mondiale, l’attività di Olivetti si intensificò sia sul fronte politico e delle riforme, sia sul piano del suo ruolo di editore, scrittore e uomo di cultura. Fondamentalmente convinto della vittoria degli Alleati, già dal 1940 cominciò a scrivere alcuni appunti politici sulla futura democrazia italiana, che sarebbero stati poi alla base del libro cardine della sua visione: L’ordine politico delle Comunità dello Stato secondo le leggi dello spirito (Roma 1946).
Nel luglio 1943 fu arrestato, sotto l’accusa di cospirazione col nemico. In contatto con Allen Dulles, coordinatore europeo dell’OSS (Office of Strategic Services, la progenitrice dell’attuale CIA, della quale Dulles divenne direttore) e residente in Svizzera, gli scrisse una lettera, intercettata dalla polizia, in cui metteva in allerta gli Alleati sulla figura di Badoglio. Rilasciato dopo l’8 settembre, si nascose per alcuni mesi a casa di amici a Roma e Milano e infine nel febbraio 1944 fuggì in Svizzera, da dove riuscì a rimanere in contatto con l’azienda. Inoltre, forse attraverso Dulles, riuscì a evitare che la fabbrica di Ivrea fosse bombardata, salvando così i macchinari, cosa che avrebbe permesso alla Olivetti di ripartire in condizioni di vantaggio sulle concorrenti alla fine del conflitto.
Durante l’esilio in Svizzera (1944-45) divenne un sostenitore del federalismo europeo, soprattutto dopo il suo incontro con Altiero Spinelli. Il citato libro costituì la base teorica per un’idea federalista dello Stato che, nella sua visione, si fondava appunto sulle comunità, vale a dire unità territoriali culturalmente omogenee ed economicamente autonome: una Comunità né troppo grande né troppo piccola, concreta, territorialmente definita, dotata di vasti poteri, che desse a tutte le attività quell’indispensabile coordinamento, quell’efficienza, quel rispetto della personalità umana, della cultura e dell’arte. Al centro del saggio si ponevano due principi: quello della responsabilità sociale dell’impresa e della sua capacità di tradurre in progresso civile i risultati dello sviluppo industriale e quello della valorizzazione delle competenze al posto delle appartenenze politiche.
La rivista Comunità, che iniziò le pubblicazioni nel 1946, divenne il punto di riferimento culturale del Movimento. Alla fine del 1959 le Edizioni di Comunità pubblicarono una raccolta di saggi di Olivetti stesso sotto il titolo Città dell’uomo, dove emergevano i grandi temi olivettiani e cominciavano a prendere forma le personalissime rielaborazioni del pensiero filosofico che lo avevano maggiormente ispirato negli anni Trenta e Quaranta, in particolare il personalismo di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain.
Una fabbrica all’avanguardia
Nel 1954 inaugurò il Servizio di ricerche sociologiche e studi sull’organizzazione, che permise non solo l’impiego di psicologi e sociologi nello sviluppo delle politiche aziendali, ma la realizzazione di un esperimento volto all’integrazione tra il principio della formazione come addestramento tecnico con quello del lavoro, inteso come insieme di competenze efficientemente applicate e come vettore dinamico nella produzione di conoscenze.
La poliedrica personalità di Olivetti lo portò a impegnarsi non solo nel campo industriale e imprenditoriale, ma a occuparsi anche di problemi di architettura e a coniugare tali questioni alle riforme sociali. Avviò la progettazione e la costruzione di nuovi edifici industriali, uffici, case per dipendenti, mense, asili nido, organizzando così un sistema articolato ed evoluto di servizi sociali, che vennero progressivamente integrati nell’impresa. Nel 1956 l’Olivetti ridusse l’orario di lavoro da 48 a 45 ore settimanali, a parità di salario, in anticipo sui contratti nazionali di lavoro, con i sabati liberi e tre settimane di ferie estive; inoltre i salari dei lavoratori erano tra i più alti in assoluto e a essi si aggiungevano i benefici indiretti, creati dall’assistenza e dai servizi di tutela medico-sanitaria dei lavoratori. Altra iniziativa di rilievo fu la concessione di un premio-ferie, basato su un’alta percentuale (circa il 60%) degli utili annuali; poi ci furono i prestiti per l’acquisto della casa; i contributi ai lavoratori per le spese per mezzi di trasporto pubblici, mense, asili nido; un servizio gratuito di riparazione di moto e biciclette; l’organizzazione di campeggi estivi per i giovani.
Uno dei tratti distintivi dell’impresa olivettiana fu di coniugare lo sviluppo industriale più avanzato col rispetto delle tradizioni contadine: agli operai venivano concessi permessi per coltivare i campi, vendemmiare, curare il fieno. Il processo d’industrializzazione non doveva cioè risultare un’imposizione dall’alto che si sovrapponeva alle tradizioni esistenti, ma doveva armonizzarsi con esse, senza sovvertirle.
Nel design industriale, nella ricerca sull’elettronica, come nella progettazione architettonica, Olivetti si circondò di collaboratori di grande valore. Tra la fine degli anni Quaranta e la fine degli anni Cinquanta, la Olivetti portò sul mercato alcuni prodotti destinati a diventare veri oggetti di culto per la bellezza del design, ma anche per la qualità tecnologica: la macchina per scrivere Lexikon 80 (1948), la portatile Lettera 22 (1950), la calcolatrice Divisumma 24 (1956).
Nel corso degli anni Cinquanta, dunque, la capacità produttiva dell’Olivetti era cresciuta a livello esponenziale, sia sul mercato nazionale sia su quello internazionale. In Italia vennero creati gli stabilimenti di Pozzuoli – famoso per il suo design architettonico a vetrate magnificamente affacciate sul paesaggio, realizzato da Luigi Cosenza – di Agliè (1955), di San Bernardo di Ivrea (1956), della nuova ICO a Ivrea e di Caluso (1957).
Gli investimenti nel Mezzogiorno ebbero un impatto rilevante. Un imprenditore che offriva impiego, assistenza, istruzione per i figli, oltre a salari maggiori della media, rappresentava una novità assoluta nella realtà meridionale e uno stimolo molto forte per i lavoratori, i cui risultati produttivi, infatti, si rivelarono incisivi, superiori persino a quelli raggiunti negli stabilimenti di Ivrea.
Altrettanto rilevanti furono anche gli investimenti e la creazione di consociate all’estero, in particolare nel paesi emergenti. In Brasile, nel 1959 fu inaugurato il nuovo stabilimento di San Paolo. Nella seconda metà degli anni Cinquanta l’Olivetti era una delle più grandi multinazionali europee.
Davanti alle prime crisi di sovrapproduzione Olivetti, fedele a quanto gli aveva insegnato il padre, prese una decisione controcorrente: non chiuse le fabbriche, né licenziò gli operai ma, al contrario, fece crescere la struttura commerciale, puntando in modo particolare sulla formazione dei venditori, figure professionali fino ad allora dequalificate, di cui colse invece l’importanza strategica. Il successo fu molto grande.
Il Movimento Comunità
La lentezza e l’ostracismo contro cui si scontrarono le sue riforme, dentro e fuori il mondo imprenditoriale, spinsero Olivetti a cercare nell’agone politico un possibile acceleratore del movimento di trasformazione culturale e sociale che animava la sua visione. L’obiettivo era quello di far compiere al Movimento Comunità il salto di qualità necessario per diventare una forza politica alternativa credibile. Nel 1956 il Movimento si presentò alle elezioni amministrative e Olivetti fu eletto sindaco di Ivrea. Il successo indusse il Movimento a presentarsi anche alle elezioni politiche del 1958, ma risultò eletto il solo Olivetti, che cedette il seggio parlamentare a Ferrarotti.
Il 1958 fu molto difficile per Olivetti: messo in minoranza nel Consiglio d’amministrazione, lasciò la carica di amministratore delegato e smobilitò la parte più prettamente politica del progetto Movimento Comunità.
La morte prematura
All’improvviso però, il 27 febbraio 1960, sul treno Milano-Losanna, fu colpito da una trombosi cerebrale che gli fu fatale.
Lasciò un’azienda presente in tutti i mercati internazionali, con oltre 45.000 dipendenti, di cui 27.000 all’estero, guidata da dirigenti e tecnici di elevato profilo, sia sul piano culturale e intellettuale, sia su quello tecnico-manageriale. L’impresa possedeva un potenziale di progettualità innovativa, fondata sulla sintesi creativa tra cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica, unico in Europa, e un ineguagliabile capitale umano e tecnico-scientifico. Trovò, tuttavia, ostacoli insormontabili in una società caratterizzata da un basso potenziale di cultura industriale e da una scarsissima propensione alle riforme istituzionali. Negli anni successivi alla morte di Olivetti, col pretesto di una crisi contabile, l’impresa venne commissariata (1964) e fu, di fatto, “normalizzata”.
Il commento
Adriano Olivetti è stato soprattutto un imprenditore che ha lasciato un’impronta importante e innovativa, ma non certo ripresa da molti.
Il senso del fare impresa
Per lui il fine dell’industria non era semplicemente nell’indice dei profitti: certo deve produrre ricchezza, ma anche creare occupazione, diffondere sul territorio i frutti del lavoro, vale a dire i ricavi del successo conseguito sul mercato; deve trasmettere anche cultura, bellezza, valori estetici, armonia di forme. In sintesi, la sua concezione si fondava su una visione sociale del ruolo dell’imprenditore.
Gli elementi caratterizzanti erano la ricerca, l’organizzazione del lavoro fondata sull’efficienza e la partecipazione di tutti, la forza dell’apparato commerciale, l’internazionalizzazione.
La Olivetti divenne una grande azienda multinazionale e uno dei problemi legati alle dimensioni è quello della flessibilità, per rispondere in modo adeguato alle fluttuazioni del mercato. Olivetti intese tale elemento come una caratteristica globale dell’impresa, connessa con la produzione, la ricerca, il commerciale, non solo quindi flessibilità del personale, cioè licenziamenti. L’Ingegnere era nettamente contrario all’espulsione dei dipendenti, egli credeva nell’importanza, per il successo dell’azienda, della fedeltà dei lavoratori, della loro stabilità, del fatto che i lavoratori partecipassero con intelligenza e passione al proprio lavoro. Un ruolo fondamentale per il buon andamento della fabbrica era attribuito quindi alla stabilità del posto di lavoro.
Sempre sul versante delle risorse umane Olivetti aveva anche una visione precisa sul ruolo e le caratteristiche di coloro i quali si trovavano in posizioni di particolare responsabilità.
«L’ultimo, essenziale, privilegio caratteristico della società capitalista che non ha nessuna relazione con i diritti naturali dell’uomo, è la trasmissione ereditaria del potere. La trasmissione della ricchezza costituisce una ingiustizia sociale evidente, sebbene legata a un istinto non facilmente riducibile; ma ancor più la sottomissione di uomini ad altri uomini in virtù del privilegio di nascita costituisce ormai nella economia capitalista occidentale un ostacolo gravissimo al progredire dell’industria. La capacità direttiva non è ereditaria e i figli dei grandi capitani d’industria sono oggi nel migliore dei casi nella posizione di monarchi costituzionali, costretti ad affidare il potere a un primo ministro di loro fiducia, un amministratore ormai posto nell’acrobatica ed equivoca situazione di mediatore tra capitale e lavoro. Il potere di dirigere il lavoro altrui deve essere conseguenza di meriti o legato a eminenti capacità superiori».
La comunicazione
Un ulteriore tassello della concezione di impresa è la circolazione delle informazioni e la comunicazione: per quanto la Olivetti fosse una grande fabbrica, quasi tutti, a cominciare dagli operai, sapevano ciò che accadeva. Ciò era dovuto a due elementi. In primo luogo l’azienda faceva circolare all’interno notiziari e documenti sulle proprie attività, inoltre la fabbrica era davvero una parte della comunità, profondamente radicata nel territorio, dove i dipendenti di ogni livello abitavano spesso a pochi isolati di distanza e si ritrovavano in mensa, nella biblioteca, al cinema, alle conferenze del Centro culturale, per cui anche attraverso canali informali si realizzava la circolazione di informazioni.
Ancora, la Olivetti anticipò di decenni le moderne strategie di comunicazione e conquista dei mercati fondate sull’idea del valore del marchio e dell’immagine aziendale, basate sulle significative realizzazioni messe in atto sia sotto il profilo industriale sia sotto quello sociale e culturale.
L’impegno sociale e culturale
Andando poi alla ricerca delle motivazioni che lo spingevano a sostenere tali iniziative, due appaiono le ragioni. La prima era di carattere morale e civile, riassumibile nel concetto di risarcimento. I lavoratori traggono indubbiamente un vantaggio dall’impresa attraverso il salario che poi si trasforma in «pane, vino e casa», per citare una sua espressione. In questo senso essi sono in debito con l’impresa. Anche l’impresa ha un debito con i lavoratori a causa della fatica, delle capacità professionali, di tutti gli oneri scaricati sui lavoratori e le loro famiglie. Pertanto essi maturano il diritto a essere risarciti in diverse forme, non solo economiche: condizioni di lavoro, servizi, iniziative varie e un territorio accogliente.
Una simile concezione è legata a un’idea di persona, di impresa, di società in cui si vorrebbe vivere.
Il secondo motivo è intrinsecamente politico, creare cioè un’impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo. In questo disegno si collocava l’idea di un capitale azionario che dovesse appartenere in parte alla comunità locale, con la partecipazione dei lavoratori, della Comunità e dello Stato regionale.
Una proprietà condivisa
Aveva anche ipotizzato tappe intermedie per questo percorso, come la creazione di una fondazione che avrebbe assunto il controllo dell’impresa di Ivrea e avrebbe visto negli enti di governo la partecipazione dei lavoratori fianco a fianco dei dirigenti, con i rappresentanti del territorio.
Il progetto di una trasformazione proprietaria dell’azienda non era visto solo come la compensazione delle forme più alienanti del lavoro, ma qualcosa di più ampio e significativo: una condizione decisiva per l’emancipazione civile, la dignità e la libertà del lavoratore come persona. Un progetto concepito appunto nel quadro di quella che egli chiama “terza via” tra liberalismo e socialismo.
Ricerca e sviluppo, vendita
Olivetti attribuì una grande importanza alla ricerca e sviluppo, all’innovazione dei prodotti, alla modernizzazione: egli fu sempre impegnato in una continua innovazione sia dei prodotti sia dei modi di produrre, e in un’organizzazione il più possibile scientifica di tutta l’azienda.
In tema di innovazione, essa derivava da sostanziosi investimenti che i profitti e una corretta politica aziendale permettevano di realizzare. Significativo è un dato puramente numerico: gli addetti nel settore, compresi quelli impegnati nelle attività di progettazione e sperimentazione dei prototipi, erano già a metà degli anni ’50 circa il 10 per cento sul totale dei dipendenti italiani dell’azienda.
Olivetti ebbe sempre ben presente l’equilibrio tra produzione e vendita, i risultati di tale preoccupazione si vedevano sia nell’elevato tasso d’innovazione dei prodotti, combinato con un’incessante evoluzione tecnico-organizzativa degli stabilimenti, sia nello sviluppo dell’organizzazione commerciale e nel relativo aumento delle vendite. Quanto a questo, nel 1954 ad esempio, l’azienda aveva alle sue dipendenze in Italia 30 addetti all’organizzazione commerciale per ogni 100 dipendenti degli stabilimenti. Un rapporto quasi mai registrato allora né dopo in aziende industriali.
In sintesi, l’Azienda di Ivrea era un caso magistrale d’impresa orientata al mercato: creava essa stessa il suo mercato con prodotti insolitamente avanzati, anticipando la direzione verso cui andava lo sviluppo industriale.
Utili, politica del personale e salariale
Il fatto che i prodotti fossero quanto di meglio il mercato potesse proporre sul piano tecnologico ed estetico aveva come conseguenza anche la possibilità di spuntare in media un prezzo molto alto rispetto ai costi di produzione. Da quei ricavi derivavano per la Società di Ivrea utili rilevanti.
I profitti dell’azienda non nascevano quindi da un monopolio di posizione conseguito con mezzi estrinseci alla qualità del prodotto. Derivavano dalla natura del progetto, dalla superiorità del design, dalla preparazione degli ingegneri e dei meccanici che le producevano, dalla perfezione delle macchine e, infine, dalla capacità di innovare continuamente, a ritmi elevatissimi, tutto il complesso della fabbrica.
Per parecchi anni i margini di profitto della Olivetti furono eccezionalmente elevati. Su tale base l’azienda di Ivrea poteva procedere a ridistribuirli sul territorio, pur avendo compensato in equa misura gli azionisti, in modo particolare i piccoli possessori di azioni che per lunghi anni videro nei titoli della società una sorta di bene-rifugio importante.
Gli utili non si trasformavano, come invece avviene ai giorni nostri nella maggior parte delle imprese, in larghi dividendi per gli azionisti, né in compensi per i massimi dirigenti pari a tre o quattrocento volte il salario di un operaio, e neppure in spericolate operazioni finanziarie.
I salari alla Olivetti erano in media più alti dell’80 per cento in confronto al resto del tessuto industriale della zona. Ma non erano solo gli stipendi a fare la differenza, un altro fattore era l’insieme dei servizi sociali di cui i lavoratori Olivetti potevano fruire: mense aziendali, asili nido, possibilità di affittare o acquistare un’abitazione a condizioni vantaggiose, servizi medici, servizi di trasporto da e per i paesi circostanti, colonie per i figli, assistenti sociali per le famiglie, biblioteche, gruppi sportivi.
Tra le componenti che andavano a formare l’elevato livello di politica aziendale e di qualità della vita per i dipendenti va menzionata poi la formazione. La Olivetti aveva costituito nel 1935, e sviluppato sino a farvi transitare migliaia di giovani, una scuola interna, il Centro formazione meccanici (Cfm), destinata a formare in prevalenza gli addetti alle officine di attrezzaggio. Ma non si insegnavano soltanto materie tecniche nel Cfm, in esso i giovani potevano apprendere altri elementi della cultura del lavoro, ivi compresa la storia del movimento operaio, nonché fondamenti di economia, e altre materie di interesse sociale.
Adriano Olivetti ha avuto una particolare attenzione a una dimensione strettamente collegata al lavoro in una fabbrica: la fatica. Gli investimenti in innovazione e in tecnologie erano orientati anche a “liberare il lavoro di una parte almeno dei suoi costi umani, anzitutto di una quota rilevante di fatica. In tal modo le persone che producevano con tecnologie innovative, con mezzi di produzione più avanzati, potevano recuperare il tempo e l’energia che occorrono per utilizzare ai propri fini le risorse economiche divenute disponibili. In questa chiave si comprende come il tempo libero dei lavoratori fosse una preoccupazione costante e prioritaria per Adriano Olivetti. Vorrei ricordare al proposito che la Olivetti fu la prima grande azienda italiana, e una delle primissime in Europa, a introdurre il sabato interamente festivo.
Il rapporto col territorio
Le politiche del lavoro di Adriano Olivetti riflettevano la sua concezione territoriale. L’impresa doveva operare efficacemente come agente di sviluppo della comunità locale, ma al tempo stesso la popolazione dell’area circostante che lavorava in fabbrica non doveva abbandonare la terra. L’Ingegnere credeva profondamente nella simbiosi tra industria e territorio, tra azienda e comunità locale, riteneva che fosse un dovere e un interesse della fabbrica risultare radicata in una collettività al pari di altre istituzioni: essere cioè elemento caratteristico di una storia, di un’identità culturale, di un paesaggio.
Certamente il primo riferimento fu Ivrea, ma lo stesso approccio venne adottato dove Olivetti aprì fabbriche, concessionarie, officine di produzione e montaggio in varie parti d’Europa e all’estero, persino in Argentina e in India. L’idea di base era che le fabbriche dovessero essere aperte in quel tale luogo per restarci, per farlo crescere, per diffondervi ricchezza, cultura e valori estetici, non perché in quel momento il costo del lavoro sul posto era inferiore a quello italiano.
I valori
Al centro dei suoi riferimenti si trova indubbiamente, con un immediato nesso al messaggio sociale della Chiesa, la dignità della persona, anche all’interno della fabbrica: questa deve essere uno strumento per la crescita delle lavoratrici e dei lavoratori, deve restare persona e non un organo inglobato e a servizio di un più vasto organismo.
La fabbrica, dunque, va progettata a misura d’uomo, un luogo in cui lavorare e vivere bene, poiché il lavoro è parte integrante della vita: ad esempio è necessario sia anche esteticamente bella e inserita in un contesto altrettanto piacevole.
Su un piano ancora più elevato Olivetti affronta il tema generale dei valori spirituali: «Il mondo moderno deve accettare il primato dei valori spirituali se vuole che le gigantesche forze materiali alle quali esso sta rapidamente dando vita, non solo non lo travolgano, ma siano rese al servizio dell’uomo, del suo progresso, del suo operoso benessere».
Per toccare anche il tema del possesso e del potere: «Per dar vita a questo nuovo mondo i ricchi e i potenti dovranno rinunciare alla corsa inconsiderata e indiscriminata verso una ricchezza sempre maggiore, alla vanità del potere e della effimera sua gloria».
Alla base del pensiero olivettiano si trova poi il concetto di «Comunità», il luogo in cui si fondono i tre elementi strutturali della vita collettiva: il potere, la cultura e il lavoro. «E poiché la nostra economia nasce dalla fabbrica dovremo, per prima cosa, parlare della fabbrica, in una parola della fabbrica comunitaria. Cos’è questa fabbrica comunitaria? È un luogo di lavoro dove alberga la giustizia, ove domina il progresso, dove si fa luce la bellezza, nei dintorni della quale l’amore, la carità, la tolleranza sono nomi e voci non prive di senso».
Il rapporto con la politica
Adriano Olivetti si impegnò direttamente e attivamente nella cosa pubblica, come abbiamo visto diede vita a un movimento, divenne sindaco di Ivrea e fu eletto in parlamento, pur rinunciando al seggio.
È significativo, però, porre in risalto un elemento che ha fortissimi legami con la sua impresa, e con la politica nazionale del tempo. Egli intuì, forse tra i primi in Italia, l’importanza dell’informatica, investendo nel campo quando ancora muoveva i primi passi. L’intuizione e lo sforzo progettuale della Olivetti non riuscì a coinvolgere il mondo imprenditoriale e i governi.
Se entrambi avessero avuto una visione differente forse oggi racconteremmo una storia diversa dell’evoluzione del settore dei computer nel mondo: la Silicon Valley potrebbe essere nel Canavese!
Le fonti
Non è difficile consultare della documentazione su Adriano Olivetti, malgrado il tempo trascorso dalla sua scomparsa. È sufficiente digitare il suo nome in un motore di ricerca per avere accesso a un gran numero di informazioni.
Dal 1962 è attiva una fondazione che porta il suo nome: «un ente operativo che sviluppa e coordina progetti indirizzati ad approfondire la conoscenza delle condizioni da cui dipende il progresso sociale e alla progressiva diffusione e realizzazione delle idee di Adriano Olivetti, di cui tutela i diritti e l’opera su mandato degli eredi». Sul sito è possibile accedere a informazioni e notizie sulla fondazione stessa e sul nostro testimone.
Rai cultura mette a disposizione due interessanti servizi dedicati a Olivetti: L’uomo del futuro e Storia di un imprenditore.
Come abitudine riportiamo in conclusione alcune frasi di Olivetti.
«La lotta nel campo materiale e nella sfera spirituale è l’impegno più alto e la ragione della mia vita. La luce della verità, diceva mio padre, risplende negli atti e non nelle parole».
«Il popolo non è organizzato; perciò l’espressione della sua volontà è una mistificazione, perché i suoi organizzatori, i suoi mediatori – i partiti – hanno perso il contatto con il popolo».
«Tu puoi fare qualunque cosa tranne licenziare qualcuno per motivo dell’introduzione dei nuovi metodi perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia».
«Il segreto del nostro futuro è fondato, dunque, sul dinamismo dell’organizzazione commerciale e del suo rendimento economico, sul sistema dei prezzi, sulla modernità dei macchinari e dei metodi, ma soprattutto sulla partecipazione operosa e consapevole di tutti ai fini dell’azienda».
«Conoscevo la monotonia terribile e il peso dei gesti ripetuti all’infinito davanti a un trapano o a una pressa, e sapevo che era necessario togliere l’uomo da questa degradante schiavitù. Bisognava dare consapevolezza di fini al lavoro».
«Percorsi rapidamente, in virtù del privilegio di essere il figlio del principale, una carriera che altri, sebbene più dotati di me, non avrebbero mai percorsa. Imparai i pericoli degli avanzamenti troppo rapidi, l’assurdo delle posizioni provenienti dall’alto».
«Il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo».
«Spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande».
«L’Italia procede ancora nel compromesso, nei vecchi sistemi del trasformismo politico, del potere burocratico, delle grandi promesse, dei grandi piani e delle modeste realizzazioni».
«La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto».