Torino ha ospitato il Festival internazionale dell’Economia dal titolo “Merito, diversità, giustizia sociale”. La riflessione dalla quale prende le mosse l’importante e articolata iniziativa è che «la crisi del Covid ci ha restituito un mondo più diseguale e soprattutto diversamente diseguale».
Un tema importante
Non si può che apprezzare la scelta di incentrare tutto il festival su questo: la ricerca di un’economia in grado di affrontare le disuguaglianze e l’inequità, delle quali parla spesso anche papa Francesco, è una sfida fondamentale per il futuro della nostra società. Si tratta infatti di costruire un’economia più giusta, inclusiva e sostenibile, un’economia che possieda un’anima, cioè che sia guidata da istanze etiche forti e che consideri la persona il centro, la protagonista e il fine di tutto il suo funzionamento. Insomma, si tratta di immaginare un’economia che, come tutti gli strumenti, sia un mezzo e non il fine verso cui guidare la vita di tutta la società.
Parafrasando il famoso detto di Gesù, è necessario domandarsi se è l’uomo che è fatto per l’economia o, viceversa, è l’economia che dovrebbe essere fatta per l’uomo. Per quanto ci riguarda, noi siamo in accordo con chi sostiene la seconda delle affermazioni. Tuttavia, una lettura della situazione presente porta a considerare più vera la prima: infatti, nelle dinamiche economiche il primato appare assegnato agli aspetti finanziari, privilegiando lo scambio di denaro e il suo uso speculativo agli investimenti destinati alla creazione di beni e servizi, nonché alla crescita dell’occupazione. Ciò che sembra comandare è la logica del profitto, a scapito della cura del bene comune.
A sostegno di una tale logica sta, come indicato anche dal titolo del festival torinese, una precisa visione antropologica fondata sul merito individuale e sulla concorrenza, per cui ciascuno deve occuparsi di acquisire meriti sufficienti a vedersi assegnata la più grande remunerazione possibile. Giustizia e merito sono dunque legati da una forte correlazione, in cui ciò che è giusto dipende in larga misura da ciò che ciascuno merita, valutato in base a quanto ciascuno è riuscito a realizzare con il proprio lavoro, a prescindere dalle proprie condizioni sociali, economiche e culturali di partenza.
Come costruire una società giusta?
Ciò su cui forse occorre riflettere, però, è se una tale visione economico-antropologica sia adatta a costruire e garantire la giustizia sociale. Infatti, legare giustizia e merito in maniera così forte non rischia forse di giustificare una società ingiusta?
È questo un tema che, a nostro parere, non può essere escluso dalla discussione.
L’economia classica si basa anche su di una precisa visione dell’essere umano che ne postula una certa insocievolezza di fondo: infatti, nei propri comportamenti egli sarebbe guidato da una volontà individuale di autorealizzazione in cui la dimensione sociale ha un ruolo secondario, accessorio al pieno raggiungimento degli obiettivi personali. Da questo punto di vista, allora, è chiaro perché i concetti di merito e concorrenza abbiano un posto centrale: ciascuno deve cercare di guadagnare per sé il massimo del merito, anche a scapito degli altri. In teoria però, la concorrenza fra gli individui dovrebbe avere un effetto soltanto positivo, poiché dovrebbe spingere ciascuno a impegnarsi sempre di più per raggiungere la propria realizzazione, spronato esempio degli altri e in un contesto in cui mediamente tutti coltivano le virtù pubbliche. In pratica, però, la concorrenza suppone una continua lotta fra gli individui, in cui la società non esiste se non come campo di competizione fra i singoli.
A nostro parere, è questo un tema che andrebbe discusso: davvero la società non esiste? Davvero gli esseri umani sono capaci solo di competizione fra di loro?
Non solo le religioni o le scienze sociali, negli ultimi anni anche studi di economia comportamentale mostrano che gli individui sono spinti a compiere azioni a favore della collettività anche quando non ne hanno un immediato tornaconto o seguendo un codice di comportamento morale personale o collettivo. È questa un’acquisizione importante, poiché induce a riconsiderare i fondamenti dell’economia classica a partire da una nuova prospettiva antropologica che ponga al centro non l’insocievolezza, ma la spontanea socievolezza dell’essere umano: non individui, ma persone capaci di relazione. Di conseguenza, non è la mano invisibile del mercato a regolare la vita sociale, al contrario, sono le persone a regolare l’economia attraverso la rete di rapporti che si danno all’interno del corpo sociale. La società, dunque, e non il mercato sono i veri protagonisti della vita economica.
Un nuovo umanesimo
A nostro parere, solo una riflessione su tale paradigma antropologico può portare ad una seria discussione su come costruire e garantire la giustizia sociale, e di questo è un esempio preminente il magistero di papa Francesco: le proposte in esso contenute discendono da una salda antropologia radicata nel Vangelo. Ma non solo. Anche l’economia civile è un esempio di proposta economica che ha posto al centro, prima di tutto, la riflessione sull’essere umano come portatore di legami, arrivando a formulare i propri principi proprio a partire dal riconoscimento della loro rilevanza per la vita economica. Da qui l’idea che anche l’economia possa essere guidata dalla fraternità, diventando così strumento per la creazione di una vera giustizia sociale, in cui a ciascuno è data «la possibilità di usufruire del benessere necessario al suo pieno sviluppo», come si esprime anche la costituzione Gaudium et spes del Concilio Vaticano II.
Una discussione necessaria
Per permettere che tale riflessione sull’essere umano avvenga, c’è bisogno, a nostro parere, di due elementi: una maggiore mobilitazione culturale nella società civile e una rinnovata centralità della politica.
Nel primo caso, è fondamentale porre al centro del dibattito pubblico il tema di come garantire a ogni persona il suo sviluppo integrale. Insomma, è auspicabile che tornino centrali idee e discorsi che si propongono di dare risposte di orizzonte ai problemi della vita sociale. In questo, associazioni, movimenti, comunità possono giocare un ruolo importante nel riportare l’attenzione su questi temi e nel tentare di mettere in pratica, anche su piccola scala, modi differenti di intendere l’umano.
Nel secondo caso, la politica deve farsi carico di trasformare queste riflessioni in azioni concrete: è difficilmente pensabile che si possa continuare oltre con una separazione netta fra elaborazione culturale e prassi politica. Quest’ultima infatti è il luogo dove si esercita nel più alto grado la cura per l’essere umano ed è per questo che essa non deve perdere di vista una dimensione ideale alta, necessaria a rispondere non solo alla sfide dell’oggi, ma soprattutto a quelle del futuro.