Ci sono persone semplici e umili che senza saperlo diventano involontariamente degli esempi e la personificazione di qualcosa di più grande di loro.
È stato questo il destino di Iqbal Masih il giovanissimo protagonista di una storia emblematica del doloroso fenomeno del lavoro di bambini e bambine. La sua dimensione è rilevante in alcune parti del mondo: si stima che uno su tre in Africa lavorino nell’agricoltura familiare e nel piccolissimo commercio, in America latina sarebbero tra il 15 e il 20% i bambini al di sotto dei 15 anni al lavoro, in Italia, secondo Save the Children potrebbero essere circa 350.000.
In generale la piaga è diffusa nelle aree più povere del mondo. Il Pakistan, dove Iqbal è nato e vissuto nella sua breve esistenza, è una di queste.
La vita
Iqbal Masih (in urdu اقبال مسیح) nacque a Murdike, in Pakistan, nel 1983 in una famiglia poverissima, già a quattro anni Iqbal Masih lavorava in una fabbrica di mattoni. Quando la sua famiglia s’indebitò per pagare il matrimonio del loro primogenito, o, come altre fonti ricordano, per pagare un’operazione della madre, il piccolo, a cinque anni, fu ceduto a un fabbricante di tappeti per 600 rupie, più o meno 12 dollari americani. Fu quindi costretto a lavorare 10 o 12 ore al giorno per sette giorni alla settimana, incatenato al telaio, spesso picchiato, con uno stipendio pari ad una sola rupia, vale a dire pochi centesimi di euro. Tentò più volte di fuggire da quell’inferno, ma sempre senza successo.
Una mattina presto dell’ottobre 1992, Iqbal scappò nuovamente dal lavoro. Saltò sul retro di un trattore, dove erano già seduti molti adulti e bambini; un’ora dopo arrivarono a una manifestazione del BLLF, il Bonded Labour Liberation Front (Fronte di liberazione del lavoro), organizzazione fondata dall’attivista Eshan Ullah Khan, un movimento in grado di ottenere nello stesso anno l’approvazione del Bonded Labor System Abolition Act, una legge sull’abolizione del sistema di lavoro coatto.
Iqbal ascoltò con interesse quando Ehsan parlò della legge contro la schiavitù per debiti. Il problema in Pakistan è che le persone non obbediscono alla legge e la polizia e i tribunali spesso aiutano i proprietari delle fabbriche piuttosto che i poveri. Ehsan chiese a Iqbal di raccontare agli altri bambini le sue esperienze. All’inizio Iqbal non osò, ma poi si avvicinò al microfono.
Ma l’abolizione era ancora lontana e così quando Iqbal rientrò in fabbrica dopo la manifestazione, essendosi rifiutato di tornare al lavoro, e avendo subito per questo gravi percosse, il padrone dell’impianto disse alla famiglia del piccolo che il loro debito contratto nei suoi confronti anziché diminuire era aumentato, ammontando adesso a diverse migliaia di rupie, pretendendo di addossare alla famiglia persino i costi dello scarso nutrimento fornito a Iqbal, di certi presunti errori di lavorazione e altro. Ovviamente il padrone si rifiutò di lasciare che Iqbal smettesse di lavorare nella fabbrica di tappeti, come lui e la sua famiglia vorrebbero. Ma Ehsan non dimenticò il ragazzino, e chiese ad alcuni suoi colleghi di saperne di più e di aiutare Iqbal a liberarsi. La famiglia decise allora di fuggire dal villaggio e Iqbal, ospitato in una struttura gestita dall’organizzazione di Ullak Khan, riprese a studiare nella scuola del movimento, chiamata dagli ex giovanissimi schiavi del debito la «scuola nostra».
Va evidenziato che, malgrado la nuova migliore situazione, a causa dei maltrattamenti patiti il suo corpo era comunque irrimediabilmente segnato: a dieci anni Iqbal aveva la statura e il peso di un bimbo di sei.
Ma quel 1993 segnò un punto, felice, di non ritorno. Iqbal divenne un giovane attivista dell’organizzazione spingendo altri piccoli lavoratori ad abbandonare le fabbriche e intervenendo nelle riunioni del movimento. A causa delle sue prese di posizione lui e la sua famiglia ricevettero numerose minacce da parte dei produttori di tappeti.
La sua storia divenne famosa in tutto il mondo e Iqbal una piccola celebrità, riconosciuta ovunque per il coraggio e l’abnegazione. Cominciò a viaggiare e a partecipare a conferenze in Pakistan e in giro per il mondo, sensibilizzando l’opinione pubblica locale e internazionale sui diritti che nel suo Paese erano negati a bambine e bambini, contribuendo altresì alla battaglia contro le nuove vecchie schiavitù del mondo.
Nell’ottobre del 1994 si recò in Svezia, partecipando a una campagna di boicottaggio dei tappeti pakistani volta a mettere pressione sulle autorità di Islamabad, nella quale raccontò ai bambini nelle scuole com’era la vita per i piccoli schiavi. Molti giornali scrissero di lui e fu ospite di trasmissioni televisive. Nel dicembre dello stesso anno volò negli USA dove presso la Northeastern University di Boston, ricevette il premio Reebok Human Rights Award del valore di 15.000 dollari e con questo denaro decise di finanziare una scuola in Pakistan. Vista la sua giovanissima età venne creata una categoria apposita: Youth in Action, ovvero Gioventù in azione. Nel 1995 partecipò a Lahore a una conferenza contro la schiavitù dei bambini.
Grazie alla pressione internazionale, all’attivismo locale, e a Iqbal, il governo pakistano iniziò a chiudere decine di fabbriche di tappeti e migliaia di piccoli schiavi furono liberati.
«Da grande», diceva Iqbal, «voglio diventare avvocato e lottare perché i bambini non lavorino troppo». Non ne ebbe il tempo.
È necessario sottolineare immediatamente che le testimonianze intorno all’ultimo giorno della sua vita sono in buona parte imprecise e a volte contraddittorie.
Domenica 16 aprile 1995, giorno di Pasqua, uscì di casa per dirigersi in chiesa, poco distante dalla casa della nonna che poi sarebbe andato a trovare, insieme a due cugini: Liaqat e Faryad. Nel pomeriggio Iqbal doveva recarsi in autobus nelle capitale, ma invece fece un giro in bicicletta coi suoi cugini. Dopo poco cadde a terra morto, colpito dai proiettili esplosi da una macchina dai finestrini oscurati che gli si era rapidamente avvicinata. Secondo il rapporto della polizia e la testimonianza iniziale dei cugini, uno dei quali fu ferito nella sparatoria in cui Iqbal venne ucciso, e di alcuni testimoni, ad assassinarlo fu un lavoratore agricolo a seguito di una breve lite. «Un complotto della mafia dei tappeti», sentenziarono invece Ullah Khan e il BLLF subito dopo l’omicidio.
Una differente versione sostiene invece che Iqbal sarebbe tornato nel suo paese in autobus la mattina di Pasqua e la sera i tre cugini portarono la cena al padre di Lyaqat tutti su una bici. Il seguito del racconto è simile al precedente: durante il percorso, nel buio, vennero esplosi alcuni colpi di arma da fuoco che uccisero Iqbal e ferirono un cugino. Faryad venne interrogato dalla polizia, intervenuta nel frattempo, e, non sapendo scrivere, firmò il foglio della deposizione con un’impronta. Le forze dell’ordine, dunque, poterono scrivere qualsiasi cosa. Del delitto venne accusato un povero contadino innocente, costretto, sembra, a confessare il crimine.
La Commissione per i Diritti Umani Pakistana confermò la versione della polizia e affermò che non vi era alcuna evidenza che dietro la morte di Iqbal vi fosse l’industria dei tappeti. Anche i cugini poche settimane dopo ritrattarono la loro testimonianza iniziale.
A distanza di tempo permangono diversi dubbi sull’accaduto e vi è la possibilità che quanto diffuso ufficialmente posse essere una menzogna per coprire le vere ragioni, i mandanti e gli esecutori dell’assassinio.
A seguito della sua morte, il tema del lavoro minorile ha ricevuto ancora maggior attenzione, rendendo Iqbal un vero e proprio simbolo di tale causa.
Il commento
La versione più problematica della morte di Iqbal è quella fornita da The World’s Children Prize, e suggerisce una prospettiva molto diversa nella lettura del tragico fatto. Certo il dubbio che non si fosse trattato di una banale lite è legittimo, riflettendo sugli interessi danneggiati dall’azione del giovane e sul forte messaggio lanciato agli altri bambini lavoratori.
Il movimento che attribuisce il premio citato ha annoverato Iqbal tra gli «Eroi dei diritti dei bambini», e lo è davvero, per il coraggio mostrato, il desiderio di cambiare vita e l’impegno profuso affinché altri minori seguissero la sua strada di libertà.
Ma perché i piccoli sono reclutati per realizzare i tappeti? È semplice, poiché il valore dei manufatti dipende anche dalle dimensioni dei nodi che li compongono: più piccoli sono maggiore è il suo pregio.
Tale esigenza spinge i produttori a far lavorare i bambini, ma ciò si lega con l’estrema povertà presente in Pakistan, e in altre zone dl mondo, che spinge le famiglie a vendere, letteralmente, i propri figli in cambio di un modestissimo salario o come forma per ripagare dei debiti.
Lottare contro le povertà è il primo strumento per debellare la piaga del lavoro minorile, insieme alla possibilità di frequentare una scuola.
Il fenomeno non si limita alla fabbricazione dei tappeti, ma investe tanti altri ambiti produttivi e legati all’agricoltura.
L’ampliarsi del lavoro dei bambini a causa della pandemia, come ricordato in un’altra pagina del sito, deve spingere a non dimenticare il problema, a far maturare nell’opinione pubblica la coscienza della sua gravità, che priva centinaia di milioni di piccoli di una vita a loro misura e la segna probabilmente per sempre.
L’esempio di Iqbal e di coloro che si sono occupati di lui è importante, poiché indica la strada da perseguire: strappare i bambini dal lavoro, supportare le famiglie, fornire una formazione e sensibilizzare.
Il sacrificio di Iqbal può avere un senso, nella sua tragedia, solo se ci mobilita.
Le fonti
Iqbal Masih è diventato un simbolo della lotta contro il lavoro minorile e, per questo, nel 2000 ha ricevuto postumo il primo The World’s Chiledren Prize (Premio mondiale per i diritti dell’infanzia)
In rete sono disponibili ulteriori informazioni sul giovane pakistano.
Nel 1998, pochi anni dopo la sua morte, la regista Torrini ha diretto un film dal semplice titolo Iqbal che racconta la breve vita del nostro piccolo testimone. Nel 2015 è stato prodotto Storia di Iqbal un film d’animazione, diretto da Michel Fuzellier e Babak Payami e patrocinato dall’Unicef, liberamente ispirato al romanzo omonimo di Francesco D’Adamo edito nel 2001 e ristampato nel 2013. Lo stesso autore nel 2018 ha pubblicato Iqbal: bambini senza paura, e altri libri sono stati dedicati a lui, come Iqbal. Il sogno di un bambino schiavo di Chiara Lossani e Bimba Landmann del 2016, Iqbal. Storia di un sogno di Elisabeth Suneby e illustrato da Rebecca Green uscito in Italia nel 2018, Io sono Iqbal di Andrew Crofts del 2019, Sulla strada di Iqbal di Catia Proietti e Shu Garbuglia del 2020. Alla sua storia è dedicata la canzone Un pallone di Enrico Ruggeri
Nel mondo, e anche nel nostro Paese, alcuni istituti scolastici sono intitolati a lui, come pure parchi, giardini, vie e piazze. Nel messaggio di fine anno del 1997 il presidente della Repubblica italiana Scalfaro ricordò la sua figura.