Il fatto
Un bambino su dieci nel mondo lavora invece di andare a scuola, l’Italia è l’unico paese dell’Ue nel quale lavoratori e lavoratrici guadagnano meno di 30 anni fa.
Queste sono due notizie che hanno caratterizzato questo caldo mese di giugno.
Una piaga da combattere
La prima è stata diffusa il 12, la Giornata mondiale contro il lavoro minorile, che ha l’obiettivo di richiamare l’attenzione di tutti sulla necessità e l’urgenza di adottare misure per aggredire queste forme inaccettabili di sfruttamento dei piccoli nel mondo del lavoro, dedicata quest’anno alla necessità di prevedere una protezione sociale universale come strumento per porre fine a tale piaga. La Giornata si è svolta dopo la conclusione della V Conferenza mondiale sul tema, che ha adottato un Appello all’azione per la sua eliminazione. Il testo propone una serie di misure, richiama la necessità di intensificare gli sforzi per liberare il mondo dal lavoro minorile, chiede ai governi di aumentare gli investimenti nei sistemi e nei programmi di protezione sociale e di garantire l’accesso universale all’istruzione obbligatoria gratuita e di qualità.
L’appello giunge in un momento critico poiché, nonostante i progressi registrati in questo inizio di secolo, negli ultimi due anni, anche a causa della pandemia, la piaga ha ripreso a estendersi. Se poco prima del Covid il numero dei minori che lavoravano erano stimati in circa 160 milioni, oggi si ritiene che al termine del 2022 saranno 9 milioni in più; per contro, come ben si sa, è notevole il numero dei giovani e degli adulti in cerca di occupazione.
Lo sfruttamento minorile è accompagnato, come richiamato dal tema della Giornata, da una drammatica carenza nella protezione sociale: un recente rapporto delle organizzazioni OIL e UNICEF dell’ONU pone in evidenza come circa la metà della popolazione mondiale non beneficia di alcuna misura e la copertura per i bambini è ancora più bassa, riguardando il 75% dei minori, oltre 1,5 miliardi.
Non bisogna pensare che il fenomeno sia un’esclusiva dei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Le rilevazioni EUROSTAT evidenziano che in Italia nel 2020 il 24,9% dei minori era a rischio di povertà e di esclusione sociale; il rapporto dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, pubblicato recentemente, pone in risalto l’aumento della dispersione scolastica nella scuola secondaria di primo grado, in particolare nel Sud e le isole, con una forte correlazione fra tale aspetto e il lavoro minorile.
Riguardo a ciò è importante evidenziare come nel nostro Paese rimanga sottotraccia, anche a causa della mancanza di dati, che sono il punto di partenza e lo strumento indispensabile per monitorare il fenomeno e per attuare interventi efficaci, basati sulle situazioni e i bisogni dei territori e dei soggetti coinvolti.
La protezione sociale e un’istruzione di qualità sono diritti umani universali e la loro presenza può essere un fattore decisivo per consentire alle famiglie di essere immuni dal lavoro minorile, soprattutto in periodi di crisi come l’attuale. La disoccupazione o un’occupazione remunerata in modo non adeguato sono le maggiori cause che costringono le famiglie a mandare i loro bambini a lavorare piuttosto che a scuola. Non solo, un minore che oggi lavora sarà in futuro, con ottime probabilità, un lavoratore sottopagato: la catena della povertà e dell’esclusione sociale in tal modo si tramandano da una generazione all’altra.
Per spezzare questa catena è necessario quindi implementare politiche di promozione di un lavoro dignitoso e correttamente retribuito, l’adozione di misure adeguate di protezione sociale e interventi sull’istruzione e la formazione di bambini e adolescenti.
Il giusto salario
Papa Francesco ha sottolineato più volte la necessità di garantire ai lavoratori un giusto salario: «quando l’unica legge diventa il calcolo del guadagno a fine giornata, allora non si hanno più freni ad adottare la logica dello sfruttamento delle persone: gli altri sono solo dei mezzi. Non esistono più giusto salario, giusto orario lavorativo, e si creano nuove forme di schiavitù, subite da persone che non hanno alternativa e devono accettare questa velenosa ingiustizia pur di racimolare il minimo per il sostentamento».
Il nodo del salario minimo è stato affrontato da una direttiva dell’UE, che però non lo impone a tutti gli stati membri, limitandosi a stabilire le procedure per assicurare l’adeguatezza dei salari minimi laddove esistono e a promuovere la contrattazione collettiva per stabilirli. Laddove questa esiste, come in Italia nella quale l’80% dei lavoratori è inserito in un contratto collettivo, non vi è l’obbligo di legiferare un salario minimo. Ma il problema rimane, sia in generale per le discrepanze tra le varie nazioni, sia in particolare nel nostro Paese a causa del basso livello degli stipendi.
Sul primo aspetto è sufficiente citare due dati: il reddito vitale fissato nei vari stati va da un minimo di 332 euro mensili in Bulgaria ai 2.256 in Lussemburgo.
L’Italia non lo adotta, ma emerge un ulteriore aspetto: i bassi salari. Secondo l’Inps sono più di cinque milioni i dipendenti che guadagnano meno di 1.000 euro al mese. Se poi si esamina l’andamento delle retribuzioni negli ultimi trent’anni la situazione è decisamente negativa, poiché nella Penisola tra il 1990 e il 2020 si è registrato un calo nel salario medio annuale del 2,9%, mentre nel resto dell’Europa questo è cresciuto ovunque, seppure in misura molto differente, anche in ragione delle situazioni di partenza. Infatti i paesi dell’ex blocco sovietico hanno visto le retribuzioni raddoppiarsi se non addirittura triplicarsi, è il caso della Lituania con un +276%. Anche nelle altre nazioni si constata una crescita. In Germania i salari medi sono aumentati di oltre il 33%, in Francia del 31%, nonostante fossero già superiori ai nostri; la Grecia, malgrado la crisi attraversata, mostra le retribuzioni cresciute del 30%, la Spagna, che ha manifestato dinamiche del mercato del lavoro simili alle nostre, registra pur sempre un incremento, seppure modesto, del 6,2%.
Secondo le elaborazioni di Openpolis su dati OCSE, in valore assoluto nel 2020 il salario lordo medio italiano si attesta sui 32.700 euro, in Spagna è di 33.000 euro; mentre i livelli degli stipendi medi sono a oltre 57.000 in Lussemburgo, in testa alla classifica, seguito da Paesi Bassi con 51.000 e Danimarca con quasi 51.000. In Germania il salario annuo medio è di 46.700 euro e in Francia è di 39.600. I paesi baltici, come la Lituania, oggi hanno retribuzioni intorno ai 26.000 euro, inferiori alle nostre, ma va tenuto conto che nel 1990 lo stipendio medio era inferiore ai 9.000 euro. Se in quell’anno l’Italia era al settimo posto ora siamo al tredicesimo.
L’andamento pone in risalto come nel nostro Paese dopo un lieve incremento degli stipendi nel periodo compreso tra il 1990 e il 2010, sempre inferire a quello delle altre nazioni europee, vi sia stata una variazione minima fino al 2019, dopodiché si è riscontrata una diminuzione piuttosto importante, che ha riportato i salari sotto il livelli del 1990. Tutti i paesi hanno subito delle conseguenze, ma l’Italia vanta un record negativo. Il futuro prossimo non è certo roseo: con l’inflazione che ha ripreso a correre il potere d’acquisto è sempre più ridotto.
Il commento
I temi in questione sono estremamente vasti e complessi, ma non per questo sono da accantonare, quindi alcune considerazioni è opportuno proporle.
Contro il lavoro minorile
Le conseguenze più gravi del lavoro precoce sono problemi fisici e psicologici a causa di fatiche altamente usuranti, violenze e abusi, abbandono scolastico e mancanza di istruzione, isolamento sociale. Per queste ragioni l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha redatto nel 1999 una Convenzione sull’argomento ratificata da tutti gli stati membri.
Nonostante ciò nel mondo sono circa 170 milioni le bambine e i bambini che lavorano per contribuire al reddito familiare. Invece di andare a scuola, devono lavorare molte ore al giorno, spesso in condizioni pericolose: nel settore minerario, nelle discariche di rifiuti, nelle fabbriche, con agenti chimici e pesticidi nell’agricoltura. Milioni di ragazze sono costrette a sgobbare come domestiche e sono esposte allo sfruttamento e agli abusi. La piaga del lavoro minorile è diffusa in particolare nell’Africa subsahariana, nelle regioni di crisi, come il Medio Oriente, nonché nelle zone di grande povertà. Il lavoro minorile è una questione ad essa strettamente legata, quindi alla molteplicità delle sue cause corrisponde la complessità nel lottare contro il problema: non si può solo vietare il lavoro minorile, è necessario agire su più fronti e ciò esige tempo.
Si tratta innanzitutto di lottare, appunto, contro la povertà, sostenendo le famiglie, offrendo occupazioni economicamente dignitose, terre da coltivare e supporti ai bambini quali borse di studio e pasti; è necessario operare per un’istruzione diffusa, per mettere a disposizione materiale scolastico adeguato insieme a insegnanti validi e motivati. È importante un’informazione capillare che sensibilizzi le famiglie e le istituzioni statali sul problema e sulle ripercussioni a lungo termine di un’istruzione insufficiente e del lavoro precoce.
I paesi e le organizzazioni internazionali devono impegnarsi per promuovere legislazioni sul lavoro, sulla formazione e sulla sanità che combattano il fenomeno dello sfruttamento dei minorenni. Inoltre è fondamentale sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale e le imprese in merito alle regole di comportamento e di acquisto di prodotti frutto di tale sfruttamento, anche con campagne di boicottaggio.
Un’azione importante è indentificare e colpire i datori di lavoro che impiegano manodopera minorile. Una delle cause principali è la sete di profitto: i padroni utilizzano i bambini perché costano poco, si lasciano sfruttare senza opporsi, possono essere impiegati in attività nocive.
In sintesi, ai minori vanno garantiti i diritti contenuti nella Convenzione dell’ONU sui diritti dell’infanzia: alla vita e allo sviluppo, al benessere, alla salute, alla sicurezza, all’istruzione, all’attività fisica, ecc.
Per un giusto salario
Stipendi più alti non hanno solo delle ricadute positive personali, ma gli effetti riguardano anche il benessere e l’economia in generale: maggiori risorse delle famiglie significano ad esempio una crescita della domanda.
Descritta la patologia si tratterebbe di trovare la cura. Le soluzioni possibili possono essere diverse. Una è già stata citata e riguarda il salario orario minimo, che potrebbe incidere su tutti quei lavori sottopagati che coinvolgono le categorie deboli, come i giovani. Una seconda misura concerne la riduzione del cosiddetto cuneo fiscale, cioè le tasse, che incidono sullo stipendio netto. La conseguenza sarebbe un alto costo per i conti dello stato. Certo, se l’evasione fiscale non fosse ai livelli stimati potrebbero esserci le risorse per questa e altre misure. Poi, se alti dirigenti, come gli amministratori delegati, limassero i loro compensi stratosferici (che mediamente secondo l’Institute for Policy Studies) sono 670 volte quelli di un dipendente, si libererebbero nelle aziende ulteriori risorse.
Altri strumenti riguardano un incremento della produttività che potrebbe incidere sulla capacità produttiva, anche se negli ultimi anni essa è cresciuta, con i salari in diminuzione. A ciò si lega l’importanza degli investimenti in innovazione e ricerca, che consentono il miglioramento dei prodotti e della loro realizzazione, nonché della competitività. Un fattore importante è, soprattutto in quest’ultimo periodo, l’incremento dell’inflazione, che erode il potere d’acquisto degli stipendi e ne diminuisce il valore. Un ulteriore aspetto è la formazione continua, sulla quale puntare per migliorare la qualificazione dei lavoratori.
Elementi di carattere generale posti in risalto da alcuni analisti sono le debolezze e le inefficienze del settore pubblico, risorse che potrebbero essere allocate meglio, un diffuso stile manageriale superato, scarsa meritocrazia.
Per affrontare la questione sarebbe necessario un impegno comune tra tutti i soggetti in vario modo coinvolti, governo, imprese, sindacati, atenei e scuole: l’auspicio è che ciò avvenga.
Le fonti
I temi trattati possono essere facilmente approfonditi, in quanto ampia è la documentazione disponibile. Il 2021 era stato dichiarato dall’ONU Anno internazionale per l’eliminazione del lavoro minorile, con iniziative dedicate al grave problema.
Le Nazioni Unite hanno promulgato la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nel 1989, e tramite le loro organizzazioni di settore hanno emanato altre due convenzioni, sull’età minima nel 1973 e quella citata sulle peggiori forme di lavoro minorile del 1999.
Numerose sono le realtà impegnate nella lotta al lavoro minorile su scala globale, come l’Unicef, Save the Children, The World’s Children Prize.
In merito alla seconda tematica affrontata, in questo periodo molte notizie e informazioni sono state diffuse sul salario minimo.
In relazione alle differenze degli stipendi sono disponibili i dati Eurostat, proposti, ad esempio, da un articolo di Europatoday, ed è interessante una pagina presente su Openpolis.