Rapporto CENSIS 2022: tra paura e rassegnazione

Come tradizione all’inizio di dicembre il CENSIS, Centro Studi Investimenti Sociali, ha diffuso il suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese, nel quale analizza e interpreta i più significativi fenomeni socio-economici dell’Italia, nella fase di crisi che il paese, e non solo, sta attraversando.

«Le Considerazioni generali introducono il Rapporto descrivendo una società che vive in una sorta di latenza di risposta, sospesa tra i segnali dei suoi sensori e la mancata elaborazione di uno schema di funzionamento. Nella seconda parte, La società italiana al 2022, vengono affrontati i temi di maggiore interesse emersi nel corso dell’anno: il ciclo del post-populismo, l’ingresso in una nuova età dei rischi, il costo dei grandi eventi della storia, l’inceppamento dei meccanismi proiettivi e la malinconia sociale, il riposizionamento latente del sistema economico. Nella terza e quarta parte si presentano le analisi per settori: la formazione, il lavoro e la rappresentanza, il welfare e la sanità, il territorio e le reti, i soggetti e i processi economici, i media e la comunicazione, la sicurezza e la cittadinanza».

Uno stato di latenza

Entrando nel merito dei contenuti del Rapporto le prime considerazioni di fondo ricordano come negli ultimi tre anni l’Italia sia stata attraversata da ben quattro crisi profonde: la pandemia, l’aumento del costo della vita, la guerra in Europa e l’incremento dei costi dell’energia. La rapidità con la quale si sono manifestati tali problematiche ha provocato pesanti ripercussioni nella vita delle persone. Per il Censis l’impegno di ciascuno permette di non regredire e di affrontare le emergenze, ma non si assiste a una reazione complessiva, di sistema, a uno sforzo di seria trasformazione.

«Resta la realtà che l’Italia non cresce abbastanza o non cresce affatto; che la macchina amministrativa pubblica è andata fuori giri e così non sarà in grado di trainare la ripresa; che la ricerca è intrappolata nella morsa di una scarsa qualità delle strutture e della programmazione pubblica; che l’esercizio della giustizia presenta disparità territoriali intollerabili; che la cronica sottoassicurazione degli italiani è uno dei privilegi che non possiamo più permetterci; che la vivace e positiva dinamica manifatturiera è stretta da una endemica fragilità logistica; che il ritardo dei servizi avanzati ricade anche sull’economia dei servizi tradizionali». La politica e la pubblica amministrazione hanno cercato di rispondere alle crisi con «un proliferare, spesso scomposto, di piani di ogni genere: per la resilienza, per la sicurezza informatica, per il clima e l’energia, per la mobilità elettrica, per l’idrogeno, per la non autosufficienza, per la sostenibilità sociale, solo per fare qualche esempio». Ma senza coinvolgimento dei cittadini, senza obiettivi e impegni precisi, senza verifiche sui risultati raggiunti: senza una vera progettualità.

Un’Italia post-populista e malinconica

Un effetto delle crisi è la paura di poter essere esposti a rischi globali incontrollabili. Da una situazione profondamente mutata negli ultimi anni emerge una rinnovata domanda di benessere e istanze di equità che sono il segnale del superamento di un certo populismo: quello provocato da qualche leader politico demagogico.

Le paure quotidiane sono molto più concrete: «La quasi totalità degli italiani (il 92,7%) è convinta che l’impennata dell’inflazione durerà a lungo, il 76,4% ritiene che non potrà contare su aumenti significativi delle entrate familiari, il 69,3% teme che il proprio tenore di vita si abbasserà (e la percentuale sale al 79,3% tra le persone che già detengono redditi bassi), il 64,4% sta intaccando i risparmi per fronteggiare l’inflazione». Cresce anche il rifiuto e la rabbia nei confronti di certi privilegi quali le enormi differenze retributive tra dipendenti e manager, le loro buonuscite milionarie, i facili guadagni e le spese delle celebrità.

Non si registrano però mobilitazioni e conflitti, emerge un malinconico rinchiudersi e una perdita di speranza, segnalata, ad esempio, dai livelli di astensione raggiunti nelle elezioni: il primo partito è quello del non voto.

Cresce l’insicurezza, il timore del futuro e di eventi esterni che possono incidere pesantemente sulla vita di tutti i giorni. Cresce anche la disillusione verso i modelli della società dei consumi: «prevale piuttosto la voglia di essere se stessi, con i propri limiti», non si è più disposti a fare dei sacrifici per cose futili.

Però al fondo è presente un sentimento di malinconia, di nichilismo, si percepisce la fine del dominio dell’io sugli eventi e sul mondo, un io, anche collettivo, che malinconicamente percepisce i suoi limiti.

Una società «senza»

La mappatura di alcuni indicatori mostra un’Italia fortemente disuguale, in cui la povertà è in continua crescita, con i vari territori che stanno sempre più perdendo di coesione sociale.

Il nostro paese è il primo in Europa per numero di Neet, giovani che non lavorano e non studiano, con una punta del 32,2% nel Mezzogiorno, contro una media UE del 13,1%.

La dinamica demografica continua al ribasso, ci sono sempre meno figli, e questo porta delle conseguenze soprattutto nella scuola per l’infanzia e in quella primaria con calo delle presenze: per la prima un -11,5% e per la seconda un – 8,3% negli ultimi cinque anni. Anche le immatricolazioni nelle università sono in calo, e le previsioni parlano di aule desertificate.

La sanità denuncia un calo di medici e infermieri: «Dal 2008 al 2020 il rapporto medici/abitanti in Italia è diminuito da 19,1 a 17,3 ogni 10.000 residenti, e quello relativo agli infermieri da 46,9 a 44,4 ogni 10.000 residenti. L’età media dei 103.092 medici del Ssn è di 51,3 anni, 47,3 anni quella degli infermieri. Il 28,5% dei medici ha più di 60 anni e un numero consistente si avvicina all’età del pensionamento». L’incidenza del finanziamento del Sistema sanitario nazionale dal 7,3% rispetto al Pil del 2020 al 6,2% del 2024.

Sistema produttivo e della Pubblica amministrazione

Le problematiche energetiche provocano gravi ripercussioni sulle aziende, in particolar modo su quelle del terziario, e le criticità riguardano ben oltre tre milioni di addetti e soprattutto le imprese di piccole dimensioni.

Il settore pubblico negli ultimi vent’anni ha visto ridurre l’occupazione: «Dal 2008 al 2020 il rapporto medici/abitanti in Italia è diminuito da 19,1 a 17,3 ogni 10.000 residenti, e quello relativo agli infermieri da 46,9 a 44,4 ogni 10.000 residenti. L’età media dei 103.092 medici del Ssn è di 51,3 anni, 47,3 anni quella degli infermieri. Il 28,5% dei medici ha più di 60 anni e un numero consistente si avvicina all’età del pensionamento». La Pa ha dovuto rispondere alle esigenze dei cittadini con meno risorse e rispetto ad altri paesi europei l’incidenza dei dipendenti pubblici è inferiore in Italia col 13,7% sul totale: in Francia è al 19,7%, in Spagna del 16,9%, ad esempio, con solo la Germania a una quota inferiore pari all’11,1%. Inoltre il personale è sempre più vecchio con un’età media che sfiora i 50 anni, sei anni e mezzo in più rispetto al 2001.

Il personale dirigente, in compenso tende a crescere, attualmente è il 3,5% in più rispetto al 2011 con 193.000 persone: si conta un dirigente ogni 16 dipendenti pubblici.

È in aumento anche la percentuale di cittadini che si dichiarano parzialmente soddisfatti del funzionamento della Pa (40,2%), e oltre la metà degli italiani, il 51,5%, afferma di essere ancora insoddisfatta. Le cause espresse sono l’eccessiva burocrazia, la scarsa motivazione del personale, la cattiva organizzazione, l’interferenza della politica nella nomina dei dirigenti e lo scarso utilizzo delle tecnologie digitali.