La “matrigna” delle riforme

Per la prima volta da tempo la Conferenza episcopale italiana ha preso una posizione molto chiara nei confronti di una vicenda politica del Paese. Infatti il 22 maggio scorso ha approvato una Nota dedicata al tema dell’autonomia differenziata, votata in tutta fretta dal Parlamento con procedure d’urgenza giusto prima dell’equinozio.

Insieme per affrontare le sfide

Raccogliendo e facendo proprie le preoccupazioni della Chiesa italiana e del suo episcopato il testo affronta le problematiche connesse con il decreto. E l’incipit è molto chiaro: «”Il Paese non crescerà se non insieme”. Questa convinzione ha accompagnato, nel corso dei decenni, “il dovere e la volontà della Chiesa di essere presente e solidale in ogni parte d’Italia, per promuovere un autentico sviluppo di tutto il Paese”. È un fondamentale principio di unità e corresponsabilità, che invita a ritrovare il senso autentico dello Stato, della casa comune, di un progetto condiviso per il futuro.

Sono parole molto attuali anche oggi, in cui si discutono le modalità di attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, secondo quanto consentito dal dettato costituzionale. Ed è proprio la storia del Paese a dirci che non c’è sviluppo senza solidarietà, attenzione agli ultimi, valorizzazione delle differenze e corresponsabilità nella promozione del bene comune».

L’accento viene posto quindi sulla solidarietà da praticare insieme alla sussidiarietà e «ogni volta che si scindono si impoverisce il tessuto sociale, o perché si promuovono singole realtà senza chiedere loro di impegnarsi per il bene comune».

Per il benessere di tutti

La nota prosegue manifestando profondi dubbi: «Da sempre ci sta a cuore il benessere di ogni persona, delle comunità, dell’intero Paese, mentre ci preoccupa qualsiasi tentativo di accentuare gli squilibri già esistenti tra territori, tra aree metropolitane e interne, tra centri e periferie. In questo senso, il progetto di legge con cui vengono precisate le condizioni per l’attivazione dell’autonomia differenziata – prevista dall’articolo 116, terzo comma, della Costituzione – rischia di minare le basi di quel vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni, che è presidio al principio di unità della Repubblica». I rischi non possono essere sottovalutati poiché esistono già profonde disuguaglianze tra le regioni, in particolare in relazione alla sanità.

Le reazioni all’approvazione della legge

Dopo il voto favorevole della Camera, l’ultimo necessario, il Presidente della CEI si è espresso in modo molto esplicito: «Abbiamo fatto un documento ufficiale, quello che dovevamo dire lo abbiamo detto, si vede che non ci hanno preso sul serio, che dobbiamo fare?». Si tratta di una solenne bocciatura.

Bocciatura che accomuna tutte le opposizioni, per una volta, con parole altrettanto dure: «legge spacca Italia», «follia istituzionale», «dare battaglia», sono tra le espressioni più usate.

Inoltre dal centro e dal sud del Paese, dalla gente e dagli amministratori, si manifesta la preoccupazione di essere abbandonati nella gestione dei servizi pubblici essenziali, con una frattura tra regioni “ricche” e “povere”. Tali dubbi sono confermati anche dalle cronache della votazione: alcuni parlamentari della maggioranza si sarebbero “eclissati” non esprimendo il loro “sì” pur di non essere poi additati come “complici” dell’approvazione nei loro territori d’origine.

Infine persino il Segretario di Stato del Vaticano ha commentato: «non si creino ulteriori squilibri tra una parte e l’altra dell’Italia».

Di cosa si tratta

Il disegno di legge sull’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario attua alcuni aspetti della riforma del Titolo V della Costituzione realizzata nel 2001. Gli 11 articoli precisano le procedure normative e amministrative per l’applicazione dell’articolo 116 della Carta, definendo le modalità con le quali stato e regioni potranno stipulare delle intese allo scopo di richiedere l’autonomia nelle 23 materie indicate dal provvedimento.

Le richieste dovranno essere inoltrate dalle regioni stesse, consultati gli enti locali del territorio. Tra le materie sono vi sono in primo luogo la tutela della salute e poi istruzione, sport e ambiente, energia, trasporti, cultura e commercio estero, tra loro 14 sono da definire tramite i Livelli Essenziali di Prestazione, i Lep, ovvero i criteri che determinano lo standard minimo di servizio da garantire in modo uniforme sul territorio nazionale. Tale determinazione è una delle condizioni essenziali per la concessione di una o più autonomie nelle materie, insieme alla determinazione dei costi: i Lep saranno definiti a partire dalla spesa storica dello stato in ogni regione nell’ultimo triennio. Il trasferimento delle funzioni sarà concesso solo successivamente a tali determinazioni e nei limiti delle risorse rese disponibili nella legge di bilancio: dunque senza Lep e il loro finanziamento, che dovrà essere esteso anche alle Regioni che non chiederanno la devoluzione, non ci sarà autonomia.

L’attuazione sarà coordinata da una cabina di regia composta da tutti i ministri competenti, assistita da una segreteria tecnica.

Entro 24 mesi dall’entrata in vigore del ddl il governo dovrà varare uno o più decreti legislativi per determinare livelli e costi dei Lep, mentre stato e regioni avranno cinque mesi per concludere le intese che potranno durare fino a dieci anni e poi essere rinnovate, oppure concludersi prima con un preavviso di almeno 12 mesi.

Infine vi è una clausola di salvaguardia per l’esercizio del potere sostitutivo del governo che può sostituirsi agli organi delle regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni qualora si riscontrino inadempienze rispetto a trattati internazionali, normativa comunitaria o vi sia pericolo grave per la sicurezza pubblica e occorra tutelare l’unità giuridica o quella economica.

Pro, contro e soldi

In sintesi, chi sostiene la riforma ritiene che riesca a garantire una migliore aderenza tra servizi ed esigenze dei singoli territori, mentre i critici temono invece che la riforma nasconda il pericolo di disgregare il Paese, inasprendo e istituzionalizzando le differenze economiche, politiche, sociali, già esistenti tra una regione e l’altra. Anche l’Ue ha espresso perplessità: nel Country report diffuso dalla Commissione si legge che il decreto «comporta rischi per la coesione e le finanze pubbliche».

Infatti resta aperto il nodo del finanziamento dell’autonomia differenziata, che secondo il Ddl dovrebbe avvenire senza ulteriori aggravi, ma diversi analisti insinuano dei dubbi sulla sostenibilità economica a livello nazionale e di diseguaglianza tra i territori, nonché il pericolo di un aggravio della burocrazia. Non può essere trascurato il pericolo che da tale processo possano derivare maggiori oneri per il bilancio pubblico: la spesa complessiva potrebbe risentire della frammentazione nell’erogazione dei servizi, oltre che di maggiori costi dovuti a diseconomie di scala.