Sabato 13 ottobre 2018
Lo scorso sabato 13 ottobre l’Ufficio pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Torino ha aperto il suo anno di attività con un seminario dedicato alle trasformazioni e alle esigenze di rinnovamento negli ambiti del lavoro e della politica.
È stata un’importante occasione per riflettere sul tema del cambiamento: nella mattinata, attorno alle trasformazioni del mondo del lavoro, in particolar modo in rapporto al concetto di quarta rivoluzione industriale; nel pomeriggio affrontando i mutamenti profondi del sistema politico.
La giornata è stata aperta da un intervento dell’Arcivescovo Cesare Nosiglia, che ha portato un suo rilevante contributo al tema dell’incontro, e dalla presentazione della giornata a cura di Susanna Bustino.
Due contributi hanno aiutato a entrare nel contesto del mondo del lavoro: un primo sui cambiamenti culturali, di taglio sociologico, portato da Daniele Marini, e un secondo di impronta teologica, di don Domenico Cravero, sul ruolo della Chiesa nella quarta rivoluzione industriale.
Alessandra Damiani, della segreteria nazionale della FIM CISL, e Stefano Franchi, direttore generale di Federmeccanica, hanno offerto il punto di vista delle loro organizzazioni.
I lavori sono proseguiti in quattro gruppi dedicato all’esame di alcuni aspetti di quello che si può chiamare “l’ecosistema 4.0” nel quale dovrebbero svilupparsi le trasformazioni del lavoro.
Il pranzo è stata l’occasione per una pausa nell’intensa giornata, ma anche l’occasione per incontri informali e proficui scambi di vedute.
Il programma pomeridiano è stato aperto dalla presentazione delle Piccole Officine Politiche, del senso delle sue iniziative, del sito WEB a servizio della comunicazione e delle attività in calendario.
Con una modalità agile e incalzante sono state affrontate sei coppie di parole che possono rappresentare alcuni sentieri da percorrere per il “rinnovamento della polis” e tracce da seguire per i laici che desiderano vivere le loro responsabilità e il loro impegno per la cosa pubblica. Ad aiutare nella riflessione sono intervenuti Stefano Parisi, Stefano Lepri, Raffaella Dispenza, Roberta Avola Faraci, Gabriele Vacis e don Pier Davide Guenzi, seguiti da alcuni partecipanti al seminario che hanno suggerito altre parole per il rinnovamento della politica.
Al termine Alessandro Svaluto Ferro ha concluso l’incontro illustrando le prospettive di impegno dell’Ufficio pastorale sociale e del lavoro che dirige.
L’iniziativa ha avuto un’eco sui mezzi di comunicazione: mettiamo a disposizione una rassegna stampa.
Tempi per esplorare
Conclusioni in occasione del seminario “Cambiamenti a tempo indeterminato”, organizzato dall’Ufficio Pastorale Sociale e del Lavoro.
a cura di Alessandro Svaluto Ferro, Direttore Ufficio Pastorale Sociale e del Lavoro.
Il compito di concludere questa ricca e intesa giornata è arduo. Provando a giocare con il registro finora utilizzato (quelle delle parole) utilizzerei il termine frastornato per descrivere la ricchezza, l’eterogeneità e l’ampiezza (di stimoli e di contenuti) che oggi ognuno di noi si porta a casa. I pensieri, le proposte e le sfide a cui siamo sottoposti in questo cambiamento d’epoca sono affascinanti, ma anche molto impegnativi perché richiedono un cambio di rotta, nella cultura, nelle prassi, nelle azioni e nei progetti che forse non siamo ancora disponibili ad effettuare.
Insieme al termine frastornato utilizzerei quindi il concetto di inquietudine: ogni buon credente deve essere animato dallo spirito di ricerca del regno di Dio in questa realtà e, spesso, tale compito risulta sia affascinante sia arduo. Ma l’inquietudine è il segno di una fede viva, vera, autentica e in ricerca, aperta alla novità, non rinchiusa nelle sacrestie e nelle certezze dogmatiche. Siamo esploratori alla ricerca della buona notizia, non sentinelle che presidiano un campo da difendere.
Ringrazio inoltre tutti coloro che hanno partecipato alla costruzione di questa importante iniziativa, nella speranza che si sia colto quel senso di coralità che ha contraddistinto l’organizzazione del seminario. La Chiesa è la comunità di credenti che insieme ricerca la presenza del Signore; se la Chiesa non vive la dimensione della sinodalità non può definirsi tale, sarebbe qualcos’altro di molto simile ad altre realtà che invece vivono di leaders solitari, presunti salvatori della patria o capipopolo che non alimentano la
partecipazione dei componenti di una comunità.
Proverò a coniugare le riflessioni della mattinata con quelle del pomeriggio e lo farò portando alla vostra attenzione tre sfide che intravedo all’interno delle trasformazioni del mondo del lavoro; concluderò poi con la proposta di tre parole chiave per il rinnovamento dell’impegno politico.
1. “Non sono tempi per chi vuole sentirsi sicuro: l’incertezza oggi è l’unica certezza.
Anche in questo si concretizza la crisi della democrazia”
Ilvo Diamanti
Apro la prima sfida attraverso una famosa citazione del politologo Ilvio Diamanti che, credo possa rappresentare nel migliore dei modi lo stato d’animo prevalente di fronte ai cambiamenti e alle trasformazioni.
In primo luogo riprenderei una delle principali indicazioni che ci ha lasciato l’intervento di Daniele Marini: il rapporto tra la rappresentazione della realtà e ciò che autenticamente vivono le persone. Spesso nella narrazione pubblica e nella retorica mediatica la rappresentazione dei fenomeni sociali non coincide con la realtà stessa, creando profonde distorsioni almeno su due livelli:
- quello della rappresentanza (già sfidata dai processi di disintermediazione) che non riesce più a intermediare le istanze che arrivano dal basso con i processi globali (local e global), il micro con il macro, il popolo con le istituzioni;
- quello delle policy, creando fratture tra le scelte delle politiche da attuare (sui temi del lavoro) con i sentiment e i percepiti delle persone. Su questo fronte dobbiamo avere il coraggio di percorrere la frontiera dell’innovazione nelle scelte, prendendo atto che:
- le policy spesso sono compartimentate (e non solo non parlano tra loro, ma troppo spesso creano cortocircuiti): è necessario pertanto andare sempre più verso una forte integrazione tra politiche per lo sviluppo, politiche attive del lavoro e politiche educative (e politiche sociali);
- sull’accompagnamento al lavoro non basta fermarsi al primo inserimento / reinserimento, ma bisogna studiare le modalità per cui la rete dei servizi per l’impiego pubblici e privati (insieme al volontariato relativo anche ai servizi per il lavoro
parrocchiali) vigili sull’occupabilità delle persone nel corso di tutta la carriera professionale. - la formazione e l’orientamento permanente devono diventare modalità ordinarie per accompagnare i lavoratori a scoprire le proprie capacità e abilità.
- sfida d’innovazione al diritto del lavoro: non solo per tener conto delle risorse e contraddizioni della gig economy, ma per stabilire un nuovo rapporto tra lavoro e festa, ripensare ad una nuova organizzazione temporale del lavoro (es. smartworking), la conciliazione tra la vita e il lavoro, lo stress correlato da lavoro.
In secondo luogo sottolineerei come i cambiamenti pongono in difficoltà sia le persone sia le organizzazioni, perché richiedono di mettersi in discussione, di uscire dalla comfort zone e dal sempreverde “si è sempre fatto così”. È l’ignoto ciò che ci aiuta a crescere
realmente; nei luoghi e nelle situazioni in cui non mi sento privo di barriere protettive c’è il reale apprendimento e l’innovazione. Uscire dal Novecento (ovvero abbandonare i paradigmi, le ideologie e le prassi del secolo scorso) non è però una prassi facile, perché, oltre a maturare un atteggiamento predisposto verso il cambiamento, serve dotarsi di una cassetta degli attrezzi per affrontare i mutamenti. Per tale motivo ritengo che tra i compiti primari della comunità cristiana ci sia quello dell’accompagnamento, aiutare le persone ad attrezzarsi per avere un pacchetto significativo, di qualità e robusto di risorse importanti per affrontare la strada del cambiamento.
Si tratta di un compito che però non si può affrontare da soli: l’educazione (e il ruolo pedagogico) oggi non spetta più alle realtà che tradizionalmente hanno la mission formativa: Chiesa, scuola, famiglia; a questi dobbiamo aggiungere altre realtà, quali il sindacato, le imprese e le realtà del privato sociale. Il mio appello non vuole essere un semplice richiamo al fare rete: ne esistono già tanti e spesso rimangono poco praticati. Serve costruire invece un ecosistema 4.0 dove i soggetti citati si svestano delle proprie tradizioni (ma non rinuncino alle proprie identità) per interrogarsi profondamente cosa significa educare al lavoro oggi, individuando opportunità e rischi del nuovo paradigma, chiedendosi che cosa serve per accompagnare le persone più fragili, assumendosi ognuno la propria responsabilità.
In tal senso mi sento di rilanciare l’esperienza del laboratorio giovani che sta andando verso la conclusione della sua prima edizione; alla luce delle sollecitazioni mattutine, invito altre organizzazioni e realtà a portare il proprio contributo sul tema dell’educazione al lavoro delle giovani generazioni.
Riassumendo questo primo capitolo attraverso sfida dello stare nel cambiamento, richiamando per titoli alcuni compiti che sottostanno a questo importante elemento: conoscere per deliberare, rinnovare lo schema della rappresentanza, costruzione di ecosistemi educativi, ripensare le policy in maniera intelligente (politiche 4.0 in sinergia con un ecosistema 4.0).
2. Dev’essere chiaro che l’obiettivo vero da raggiungere non è il “reddito per tutti”, ma il “lavoro per tutti”! Perché senza lavoro, senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti.
Papa Francesco (discorso ai lavoratori dell’Ilva di Genova)
La seconda citazione di papa Francesco inaugura il secondo capitolo. Non è mia intenzione riflettere sulla necessità di dotarsi di politiche per lo sviluppo e per il lavoro (osservazione forse scontata), ma sul significato dell’esperienza del lavoro per l’uomo. A conferire dignità alla persona è il lavoro, non uno strumento monetario; né tanto meno la natura del rapporto giuridico (v. P. Ichino). L’interrogativo piuttosto risuona come segue: “il lavoro conferisce pienezza di vita ai giovani oggi?”. Il lavoro assume una dimensione valoriale per l’uomo o solo una dimensione strumentale?
I dati presentati dalla ricerca di Marini dicono chiaramente che autonomia, realizzazione personale e percorso di crescita siano i valori a cui fanno più riferimento le persone nel mondo del lavoro. I processi di soggettivizzazione sono pertanto evidenti e con questo elemento (ambivalente) bisogna fare i conti. La sfida educativa pertanto deve concentrarsi su due elementi:
- rinforzare Il pacchetto valoriale e alimentare una nuova visione culturale del lavoro. All’epoca del lavoro 4.0, fortemente concentrato sulla persona, elementi quali l’autonomia, la creatività, la capacità di lavorare in team, la leadership, etc sono
competenze indispensabili. Ciò che conta oggi è il coinvolgimento emotivo del lavoratore, a differenza dell’epoca fordista in cui obbedienza e mancanza di pensiero critico erano gli attributi prevalenti dei lavoratori dipendenti. Dare un senso al lavoro (coerente con proprie inclinazioni), emersione delle capacità cognitive e partecipazione sono esperienza di libertà nel lavoro. - Alimentare le hard skills; il deficit di competenze tecniche è ancora importante nel nostro Paese e non è una questione sottovalutabile.
Educare i giovani alla partecipazione e all’imprenditività penso che sia la sfida del presente e del futuro per prevenire il rischio di formare degli esclusi ai nastri di partenza. La partecipazione non è un bottone della radio che si accende e si spegne, serve educarla attraverso il far fare esperienza di vita, in luoghi altri che non siano solo i contesti amicali, familiari o scolastici. Per tale ragione ritengo strategico per il futuro del Paese e dello sviluppo del lavoro e della scuola puntare con forza sull’alternanza scuola lavoro come strumento che accorcia le distanze tra due mondi spesso scollegati. Fare esperienza però non basta se questa non viene debitamente riletta; qui possono giocare un ruolo importantissimo i corpi intermedi, chiamati ad aiutare le persone a non vivere da sole le trasformazioni, ma costruendo nuove mutualità, cooperazione e solidarietà.
Per queste ragioni non ritengo esaurita l’idea di avere gruppi di lavoratori, in connessione con i movimenti/aggregazioni laicali, che leggano la loro esperienza del lavoro e possano narrarla in altri luoghi.
Il secondo capitolo pertanto potrebbe andare sotto la sfida della rinnovata dignità del lavoro e del lavoratore nel cambiamento, declinabile nelle seguenti parole chiave: il valore spirituale del lavoro, la persona al centro, la partecipazione, l’imprenditività e le capacità personali.
3. Il potere è la capacità di raggiungere degli scopi. Il potere è la capacità di effettuare
dei cambiamenti.
Martin Luther King
Siamo abituati, in quanto profondamente immersi nel Novecento, a ragionare secondo schemi conflittuali e dicotomici. Se invece vogliamo approdare nel Terzo Millennio (soprattutto da un punto di vista culturale) a superare le contrapposizioni per tenere insieme una realtà che diventa sempre più stratificata, complessa e difficile da incanalare secondo categorie analitiche spesso sorpassate. Di seguito ho provato a fare un breve elenco, non esaustivo, dei principali conflitti che siamo chiamati a governare e superare: capitale vs lavoro, competitività vs benessere della persona, formazione (e scuola) vs lavoro, famiglia vs lavoro, salute/ambiente vs lavoro, primo welfare vs secondo welfare, insiders vs outsider grande vs piccola impresa, tecnologia vs uomo, stranieri (ci rubano il lavoro) vs autoctoni, etc.
La sfida è quella di governare i processi di cambiamento nella complessità, assumendosi responsabilità per favorire il dialogo tra le imprese e i lavoratori, tra obiettivi di sviluppo che devono stare insieme (la salute e il lavoro), tra processi educativi e mondo del lavoro (no adeguamenti al mdl, ma accorciare e ridurre le distanze si!), tra occupati e disoccupati (per favorire la coesione sociale).
Per concludere questo paragrafo sul tema del governo dei processi di trasformazione segnalerei due implicazioni:
- se i processi di cambiamento presentano come tratti distintivi e peculiari la velocità e l’intensità, l’ecosistema dei soggetti chiamati a governarli, dovrà dotarsi di strumenti che siano in grado di anticipare le conseguenze di tali trasformazioni, affinché non si esplicitino esclusivamente gli elementi dannosi per il lavoro umano e per la società. Politiche per la formazione, politiche per il lavoro e politiche di welfare devono essere profondamente ripensate nell’ottica che non dovranno più solo fotografare ex post i mutamenti avvenuti, ma dovranno essere in grado, in qualche modalità, di anticiparli e di definire ex ante le linee d’intervento;
- governare non significa porre esclusivamente restrizioni, ostacolare i cambiamenti o tantomeno mortificare le novità e la creatività che si genera nell’ecosistema sociale ed economico. Significa invece valorizzare ciò che di buono emerge dell’iniziativa privata. Governare i processi di cambiamento delle nostre economie, compresa quella italiana, che vedono il passaggio dalla crisi recessiva a quella trasformativa, significa pertanto rendere tali potenzialità delle occasioni di sviluppo per la maggior parte delle persone, dei lavoratori e delle imprese.
Segnalo infine quattro tappe fondamentale per tentare di governare i processi di trasformazione: l’importanza dello studio e della ricerca, la narrazione, la condivisione delle decisioni con le persone, l’assunzione di responsabilità particolari.
E ora veniamo alle tre parole chiave che vi rilancio rispetto al tema del rigenerare la politica, attraverso l’esperienza delle Piccole Officine Politiche.
PASSIONE.
Il filo rosso delle quattro Officine (aperta, educatori, interessati e impegnati) è dato dalla passione (che va svelata, confermata, suscitata, accompagnata, aiutata a crescere). Per fare seriamente e responsabilmente politica (ovvero occuparsi dei problemi sociali) ci vuole un alto coinvolgimento emotivo, una scelta che indirizza verso una vita piena (dal punto di vista qualitativo).
Utilizzo questo termine consapevolmente: vogliamo andare controcorrente e indicare, in un tempo avaro di sentimenti positivi, qualcosa di bello perché la passione richiama l’amore, il servizio disinteressato verso le altre persone, il lavoro fatto bene. Basta parlare della politica solo con aggettivi che richiamo idee negative, quali la corruzione, l’imbarbarimento, l’interesse particolare, la disonestà e l’incapacità di dare soluzioni concrete.
Non vogliamo e non possiamo accodarci a questo tipo di narrazione; nessuno di noi vuole negare i problemi, ma semplicemente restituire dignità alla politica come attività nobile ed edificante per l’uomo e per la società in generale.
Anche la comunità cristiana troppo spesso rifiuta l’impegno politico proprio per questa ragione: è più comodo meglio restare sul piano della carità intesa come assistenza, come azioni di promozione sociale o validi interventi progettuali, ma rifiutare di indirizzarci sul piano politico. Eppure, come ricorda Paolo VI, la politica è la più alta forma di carità.
La passione per i cristiani dovrebbe richiamare il concetto di vocazione, ovvero di impegno per rispondere alla chiamata di Dio nel custodire e coltivare il Regno. La vocazione laicale è quella tipicamente rivolta ad assumersi responsabilità all’interno della vita sociale e politica del territorio. La passione per i cristiani è sinonimo di concretezza, assunzione di responsabilità, vocazione ed espressione autentica della fede.
PERSONE (AL PLURALE).
È terminato il tempo delle ideologie novecentesche (da almeno un ventennio), ma non quello dei pregiudizi e delle semplificazioni estreme. In questo clima rischiamo di perdere di vista il fine dell’azione politica: il benessere delle persone nel suo insieme, ovvero il bene comune. E sappiamo, per esperienza che il benessere sociale non coincide necessariamente con quello economico, ma è qualcosa ce va oltre perché tiene conto di tutte le dimensioni della vita.
Le persone sono il soggetto dell’azione sociale, non le organizzazioni in quanto tali, non le appartenenze o le bandiere in quanto tali (peraltro sempre più sbiadite). Appassionare le persone al bene comune significa essere capaci di veicolarle nei canali e nelle forme più corrette, ripartendo dalle trasformazioni della partecipazione, non più intesa come militanza e dedizione totale alla causa, ma come espressione della soggettività.
Tenere insieme l’io e il noi è una grande sfida in un tempo dove le fratture e le polarizzazioni sono molteplici (v. Truffelli). Ne sottolineerei una in particolare: quella tra le istituzioni e il popolo, indice di una democrazia debole. Le istituzioni democratiche, nate per promuovere l’inclusione sociale dei più deboli, oggi sono messe in discussione dagli strati più popolari (o dal ceto medio), che non si rispecchiano più nell’azione istituzionale.
La democrazia è in crisi profonda e come sostiene il sociologo tedesco Y. Mounk probabilmente siamo entrati in un’era populista, in cui la democrazia liberal-rappresentativa è sfidata dall’avanzare di un fronte culturale che mette in discussione le prassi liberali e propone il popolo come una realtà omogenea, indistinta e quasi mitica. Il cambiamento più significativo della politica (non solo italiana) è proprio questo: aver spostato l’accento dalla democrazia al populismo; si tratta di una trasformazione che dura da più di un ventennio.
La democrazia non ha solo una dimensione strumentale (chi governa e come arriva al potere, attraverso le elezioni libere), ma possiede anche un valore sostanziale. J. Rawl definiva la democrazia come lo spazio della “per l’esercizio della ragione pubblica”, un luogo di dialogo, di confronto tra posizioni diverse, ma possibili in cui le persone sono soggetto del processo politico. Oggi invece assistiamo spesso alla criminalizzazione dell’avversario, all’inconciliabilità tra posizioni diverse e alla fatica di accettare altre culture ed esperienze.
Possiamo declinare queste chiusure con i diversi –ismi che contraddistinguono lo spazio della polis: i sovranismi (la chiusura dei confini nazionali), gli ultralocalismi, i populismi, etc. Contro sembra essere la parola chiave e la cifra essenziale dell’agire politico. Le parole spesso vengono utilizzate come clave contro gli avversari politici. Rimettere al centro le persone, la soggettività, insieme a nuove forme di solidarietà significa ribaltare questa logica: non contro, ma per qualcosa e per qualcuno.
PAROLE (NUOVE)
Per narrare, comprendere, studiare le trasformazioni senza ricorrere in atteggiamenti nostalgici (anche e soprattutto in politica) servono parole nuove. Non dobbiamo arrenderci alla semplificazione delle vicende sociali; la globalizzazione infatti ci costringe a pensare in maniera complessa, articolata, interconnessa e interdisciplinare. Serve pertanto ricostruire una nuova grammatica della politica. Per adempiere a questo sforzo culturale serve conoscere, studiare e approfondire (sempre). “La parola rende eguali” diceva don Milani.
Per tale ragione il progetto delle Piccole Officine Politiche rimane esclusivamente sul piano formativo, pedagogico e pre-politico. E puntiamo (ambiziosamente e con coraggio) a parlare nuovamente di politica, evitando il chiacchiericcio, stando sui problemi reali e
accompagnando le comunità (degli impegnati, degli interessati, degli educatori e dei giovani, delle persone oggi distanti dalla politica) a confrontarsi. Per significare nuovamente il valore della democrazia serve costruire spazi di dialogo costruttivo, non per incasellare ideologicamente (sarebbe sciocco e fuori luogo), ma per aiutare le persone a pensare in maniera critica ed imparare ad essere cittadini sovrani!