La (liberal) democrazia e i suoi nemici

Amartya Sen, in una delle sue celeberrime riflessioni, sosteneva che i cittadini, quando conoscono e si riconoscono in una democrazia, non sono più intenzionati a rinunciarvi e la battaglia per difenderla equivale alla lotta per la giustizia. Fino a qualche anno fa’ era una considerazione che mi trovava pressoché d’accordo; oggi nutro molti più dubbi. La democrazia sta vivendo una profondissima fase di trasformazione in cui, per ora, non sappiamo come ne uscirà. 

         Le culture politiche che ne mettono in discussione alcuni portati teorici non sono più quelle tipicamente novecentesche (le dittature e i totalitarismi), ma un fenomeno che, da diversi anni, è sulla bocca di molti commentatori e analisti: il populismo. Per certi versi si tratta di una sfida alla democrazia dal di dentro perché il populismo non è antidemocratico, ma certamente illiberale. 

         La vicenda che sta accompagnando l’Ungheria di queste settimane è emblematica ed è passata quasi nel silenzio mediatico: la notizia della concessione “dei pieni poteri” a Viktor Orban ha trovato rilevanza per poco più di 24 ore.  Presi (e giustamente preoccupati) dall’emergenza sanitaria comportata da Covid-19, appare quasi normale un attentato a quell’ordine liberal-democratico che il sistema europeo ha vissuto e sperimentato in questi anni di pace e (relatività) prosperità.

         Appare grave che uno stato membro dell’Unione Europea, seppur in nome di un’emergenza, decida si sospendere lo stato di diritto, i diritti sociali e la tutela delle minoranze, prendendo la via autoritaria di stampo populista. A guardar bene la vicenda, sembra evidente come Orban, con tempismo e astuzia, stia dando corpo e gambe al suo progetto iniziale: liberarsi dello stato liberale e democratico per instaurare un regime neo-autoritario. Si tratta dell’ennesimo leader populista che sfrutta a suo favore gli eventi (anche drammatici) della storia per negare i principi della civiltà giuridica, politica e liberale europea. 

         Ma non è una novità: il processo di indebolimento delle democrazie liberali è un percorso che sta avanzando nei nostri paesi occidentali da diversi decenni, viene da lontano e ha ragioni e radici culturali e pratiche profonde. Il progetto sostenuto da Orban è arrivato all’ultimo step, quello formale, dove il Parlamento (fulcro delle rivoluzioni liberali) viene sospeso per favorire il potere di un premier-monarca a cui affidare le sorti del popolo. Un destino quasi divino e salvifico. 

         La perdita della centralità degli organismi legislativi e assembleari, come detto poco fa, riguarda molte delle realtà democratiche e gli attacchi alla sua rilevanza non sono relativi solo allo stato attuale d’emergenza. Come non ricordare il tentativo di chiudere il Parlamento britannico da parte dell’attuale premier, Boris Johnson, per favorire e accelerare il processo di uscita del proprio Paese dall’Unione Europea? Un fatto altrettanto grave se si pensa che ha avuto luogo nel Paese campione del parlamentarismo e patria dell’ordine liberale[1].

         Ma la democrazia è ancora un bene prezioso nella nostra società. Va riformata certo, ma non abolita. Essa non è solo assimilabile al suffragio universale, ma alla trasparenza, alla possibilità di avere un’informazione libera e responsabile, alla garanzia di poter avere rappresentanza politica e voce in capitolo, alla libertà di espressione, alla possibilità che i diritti siano garantiti non per “concessione del sovrano”, ma per “riconoscimento del perimetro costituzionale”. 

         Anche in queste settimane ho la sensazione che la democrazia (e i suoi ineludibili processi) sia considerata alla pari di un orpello che, seppure prezioso, rimane sempre un comfort. E nelle situazioni d’emergenza è possibile sospenderla, esattamente come fatto da Viktor Orban. Oppure come tentato e compiuto nel tempo dal nuovo “imperatore” turco Erdogan, il quale ha interrotto bruscamente la già difficile transizione della Turchia a stato liberal-democratico, per collocarla in un regime populista e illiberale. 

         La salute è un bene primario e diritto basilare per ognuno di noi. Le misure di distanziamento sociale e di sospensione limitata dei diritti individuali di libertà, che molti dei governi occidentali sono stati costretti ad intraprendere, erano volte proprio a favorire la salute di tutti i cittadini. 

         Ma non facciamoci prendere dal bisogno di semplificazioni che emerge in tutte le situazioni d’emergenza: esiste anche una salutedelle istituzioni.È una tensione da non perdere per evitare che al governo dei Paesi democratici s’inseriscano pifferai e che, in nome dell’emergenza, accrescano il proprio potere in maniera smisurata. 

         D’altro canto non possiamo affermare che la crisi della liberal-democrazia sia legata solo a ragioni culturali, ma dobbiamo, per un’analisi seria e non faziosa, riconoscerne i fallimenti e limiti pratici che hanno contribuito ad un processo d’indebolimento che (per ora) appare irreversibile e per certi versi rischia di rafforzarsi in questo tempo.

Alcuni punti fondamentali della crisi dell’ordine liberal-democratico

  1. I comportamenti della politica

         Gli attacchi politici, lo svilimento perenne delle istituzioni da parte stessa di quelli che dovrebbero rappresentarle (come non pensare alle ripetute scene in cui i Parlamenti invece di essere luogo di confronto, dialogo, anche accesso, sono stati tramutati in ring e spazi scarsamente generativi) e la narrazione di una politica inutile hanno contribuito a produrre, anche nella società civile, quella retorica antipolitica che ha fatto da premessa alla sua evoluzione più compiuta, ovvero il populismo

         Esso, come saggiamente spiegato da Y. Mounk nel testo “Popolo vs Democrazia”, può essere considerato una patologia della democrazia e non un modello di governo contrapposto. Anzi si alimenta della stessa idea di democrazia (intesa qui come libere elezioni e suffragio universale) per combattere il suo vero nemico: l’ordine liberale, instaurando un regime illiberale, privo di tutele per la cittadinanza (soprattutto le minoranze) e sospendendo lo Stato di diritto. Niente più garanzie in nome di un Governo (personale e autoritario, come nel caso di Orban) e a scapito di luoghi assembleari e deliberativi. Ma su questo elementi tornerò nel prossimo paragrafo, quando parleremo di personalizzazione e leaderizzazione della politica. 

         L’idea di una politica perditemponei palazzi di potere si è fatta strada grazie all’indecisione e incapacità di produrre politiche, azioni e direzioni chiare. L’elevata rissosità, senza evidenti ricadute benefiche nella vita delle persone, ha prodotto una cultura che ne ha iniziato a confondere l’incapacità di certa classe dirigente con i limiti del sistema democratico. In poche parole il desiderio rinnovamento si è trasformato in spirito di risentimento verso le istituzioni pubbliche e le procedure democratiche. 

  1. L’avanzare della cultura leaderistica

         L’uomo solo al comando è una tentazione annunciata più volte da tutti i populismi, anche quelli di marca occidentale. Una plastica e attuale rappresentazione è certamente rappresentata dalla Presidenza Trump, leader dalla retorica populista che non ha (ancora) attaccato il piano formale del liberalismo democratico. 

         Abbiamo accumulato negli ultimi due/tre decenni una sfilza di leader politici che si sono presentati non solo come potenziali salvatori della Patria, ma che hanno teorizzato (e qualche volta praticato) la necessità di sbilanciare i poteri a favore degli organismi di governo rispetto a quelli parlamentari, spesso riprodotti dalla stessa classe politica come inutili e dannosi.

         La rapidità dei cambiamenti sociali ed economici dell’ultima fase della globalizzazione sembra appunto contraddire la naturale lentezza del processo decisionale democratico (a volte confondendolo con la burocrazia).  L’antipolitica in un certo senso nasce da queste osservazioni: contrapporre le logiche veloci del mondo privato (e aziendale) con quelle viziose e lente della politica[2]. Pertanto appare giusto, nel senso comune (e a volte non a torto), sospenderle, cambiarle in nome di una velocità che si può garantire solamente spostando il reale potere agli esecutivi e ai loro comandanti in capo. 

         La presenza di tale cultura, leaderistica e personalistica, era quindi già viva prima dello scatenarsi della pandemia. A mio avviso sarà vera anche dopo, dimostrando che Covid-19, è uno straordinario acceleratore di processi che erano già presenti nella nostra società. A mio parere una delle conseguenze che quest’esperienza lascerà nella nostra cultura istituzionale e politica sarà proprio quella di desiderare sempre più leader forti e capaci di agire rapidamente (anche a scapito di procedure e norme). Quello che si profila potrebbe essere un tempo in cui il liberalismo democratico entri definitivamente in minoranza. 

  1. i fallimenti pratici: scarsa connessione tra economia, società e politica

         Ma come detto più volte la democrazia non se la passava bene già prima dello scatenarsi della pandemia. Negli ultimi due/tre decenni non è riuscita ad affrontare alcune sfide che la stanno rendendo debole di fronte agli occhi di molti cittadini e osservatori. 

         Il processo di iper-globalizzazione[3]ha svelato due piano di frattura su cui si gioca l’efficacia degli attuali sistemi politici occidentali: l’antinomia establishmentvs popoloe quella apertura(o globale) vs chiusura(nazionale). 

         Queste due linee di conflitto hanno eroso il sistema di fiducia e di credibilità che il ceto medio ha sempre attribuito ai nostri sistemi politici. I repentini cambiamenti che hanno eroso le possibilità del ceto medio per favorire un sistema sempre più polarizzato hanno rotto quell’alleanza che si era venuta a creare tra gli Stati democratici (con le loro promesse di prosperità e benessere per tutti) e la classe media. Affermo da più anni, al contrario di molte vulgate, che non siano le classi più povere a sostenere l’avanzata dei populismi illiberali, ma proprio coloro che nelle crisi rischiano di veder erose le possibilità di carriera sociale. 

         Gli elettori di Trump, Salvini, Le Pen, Orban, etc sono quelli che vedono nel futuro come qualcosa che li condannerà e non come un’opportunità per esercitare le proprie libertà e realizzare la propria personalità. E qui entrano in scena i populisti illiberali che chiedono “pieni poteri” per riportare il ceto medio nella sua posizione originaria, passata, con idee nostalgiche e peraltro irrealizzabili. 

         Allora i pochi risultati ottenuti dallo scarso governo dei processi di globalizzazione hanno aperto le critiche sui modelli democratici e liberali, incapaci di proteggere i cittadini dalle ripercussioni delle trasformazioni che stiamo vivendo. 

         Ritengo che questo sia il vero campo da gioco per rivalutare (anche culturalmente) la democrazia: sistemi di governo capaci di dare risposte adeguate alle sfide del nostro tempo. Viceversa le persone si rifugeranno in retoriche sicuritarie, identitarie e persino volte a rafforzare i poteri personali del comandante di turno. 

         Gli scarsi risultati in campo economico da parte soprattutto delle classi dirigenti progressiste (e sociali democratiche) in favore della popolazione hanno aperto la strada alla critica populista. La forza e l’adesione culturale alla democrazia ha avuto il suo massimo successo quando i governi sono riusciti ad assicurare per un discreto periodo di tempo benessere, crescita economica, protezione sociale e sicurezza. 

         Negli ultimi decenni l’affacciarsi sulla scena internazionale di paesi che crescono e prosperano senza essere per questo democratici, né tantomeno liberali (come la Cina e la Russia) sta rompendo anche l’idea consolidata che democrazia faccia rima con benessere. 

Pertanto, partendo da questi tre elementi, si può tracciare una mappa di priorità per ridare dignità ai sistemi liberal-democratici:

  • ricostruire una nuova etica delle classi dirigenti, preparare, anche in questo tempo, persone e gruppi nuovi, affinché siano abitati da senso di responsabilità, rispetto delle pubbliche istituzioni e competenza. Le democrazie hanno bisogno dell’ampia partecipazione popolare che non deve e non può confondersi con l’improvvisazione. Consenso e competenza devono trovare un nuovo equilibrio perché non basta avere un pacchetto di voti per guidare un Paese;
  • riscoprire il gusto della partecipazione, della socialità, del dialogo e del prendere parte insieme alle decisioni (magari aiutati dalle nuove tecnologie). Per combattere la cultura leaderistica (e della delega in bianco) serve praticare strade nuove che rendano la partecipazione ampia come un desiderio e un elemento qualificante. In parte, anche nel nostro paese, non mancano belle esperienze di una società civile che vive con dedizione e coraggio l’idea del bene comune come strada di ricerca collettiva. Serve forse sistematizzarle e rendere pienamente esperienze di “politica”. 
  • le istituzioni pubbliche (senza per questo immaginare forme di neo-statalismo) devono tornare ad incidere positivamente nella vita delle persone, dandotestimonianza che il loro intervento risulta decisivo e importante nella quotidianità e nell’ordinarietà di famiglie, imprese e cittadini. Viceversa le sirene dell’antipolitica e del populismo saranno vincenti perché richiamano ad un ritorno al passato tanto affascinate quanto perdente. E se i populismi vinceranno questa battaglia sveleranno la loro natura illiberale, ovvero manifesteranno la loro intrinseca essenza autoritaria. 

Alessandro Svaluto Ferro, Direttore Ufficio Pastorale Sociale e del Lavoro


[1]Ne abbiamo parlato in un apposito articolo sul sito delle Piccole Officine Politiche: https://www.piccoleofficinepolitiche.it/viktor-orban-la-democrazia-tra-parentesi/

[2]In Italia, a rappresentare plasticamente, questa situazione venne in soccorso Silvio Berlusconi (un imprenditore prestato alla politica che avrebbe fatto funzionare l’Italia come una sua azienda).  

[3]Per approfondimenti si può consultare “Orizzonti Selvaggi” di C. Calenda