Il personaggio
Il personaggio che presentiamo è stato un importante leader sindacale e un politico di primo piano dal dopoguerra agli anni ’80 del secolo scorso. Egli è stato il principale artefice, da ministro del lavoro, dell’approvazione dello Statuto dei Lavoratori, avvenuto giusto cinquant’anni fa, il 14 maggio del 1970.
La vita
Carlo Donat-Cattin nasce il 26 giugno 1919 a Finale Ligure (Savona), giornalista, sindacalista, politico e ministro. Il padre Attilio, di origini savoiarde-torinesi, è impiegato di banca; la madre Maria Luisa Buraggi discende da famiglia nobile. Soldato nella Grande Guerra, Attilio è ferito e destinato al distretto di Savona, dove conosce e sposa la contessa Buraggi il 1° maggio 1916. Hanno 5 figli: Camillo, Carlo, Anton Paolo, Flaminio, Mariapia. A Torino dopo la guerra, Attilio è esponente del Partito popolare e dirigente dell’Azione cattolica. Gli impegni del padre influenzano Carlo che frequenta l’oratorio salesiano della Crocetta e la Gioventù di Azione Cattolica con Carlo Carretto e Armando Sabatini. Consegue la maturità classica al «Gioberti». Si iscrive a Filosofia, ma non frequenta. Dialoga con il Cenacolo domenicano, si appassiona ai filosofi francesi Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier, studia economia politica. Chiamato alle armi, il 25 luglio 1943 lo coglie ufficiale dei Granatieri a Montefiascone vicino a Viterbo. Rientrato in Piemonte, è assunto all’Olivetti di Ivrea, entra in contatto con la Resistenza e dirige il settimanale «Il Popolo canavesano». La sua prima passione è il giornalismo: dagli anni Trenta collabora ai periodici dell’Azione Cattolica, «L’Avvenire d’Italia», «L’Italia» e poi a «Il Popolo nuovo». Redattore sindacale del quotidiano democristiano che in 13 anni (1945-1958) cambia quattro direttori – Gioacchino Quarello, Rodolfo Arata, Giovanni Re, Carlo Trabucco – e ha redattori di qualità: Domenico Agasso senior, Bona Alterocca, Gian Aldo Arnaud, Carlo Bramardo, Carlo Chiavazza, Giorgio Calcagno, Carlo Casalegno, Beppe Del Colle, Carlo Donat-Cattin, Anna Rosa Gallesio Girola, Domenico Garbarino, Piero Onida, Achille Valdata. Ma vende poco e nel 1958 Amintore Fanfani, segretario Dc, lo chiude. Tra l’altro il giovane Donat-Cattin segue i lavori della 25ª Settimana sociale dei cattolici di Torino «L’impresa nell’economia contemporanea» (1952).
Donat-Cattin appartiene alla scuola della «presenza nel sociale» dei cattolici italiani esplosa nell’Ottocento e nel Novecento, di cui Torino e il Piemonte sono una delle «roccaforti» con i «santi della socialità»: non sono solo preti, frati e fondatrici di Congregazioni religiose ma anche laici, padri e madri di famiglia, giovani. Nati in famiglie cristiane, cresciuti nelle parrocchie, forgiati nelle associazioni giovanili, lanciati nel sindacalismo cattolico, esponenti di spicco nell’Azione Cattolica, nel Partito Popolare e nella Democrazia cristiana.
Fa la gavetta sindacale nella Torino industriale e operaia. Ha come maestri e referenti privilegiati spiccate personalità come il novarese Giulio Pastore e come l’astigiano Giuseppe Rapelli. Assume vari incarichi nella struttura sindacale; punta alla costruzione di un sindacalismo cattolico strettamente collegato all’insegnamento sociale della Chiesa; si adopera nella difesa del sindacato di fronte ai potentati economici, denunciando in particolare i cedimenti filo-padronali («sindacato giallo») alla Fiat di Vittorio Valletta; ha un’attiva presenza nelle Acli. Alla fine degli Anni Cinquanta nel Pinerolese un’azienda vuole ristrutturarsi – certi fenomeni vengono da lontano – sbarazzandosi di buona parte del personale. Una grigia domenica alla vigilia del Natale quel cristiano spigoloso e quel coriaceo sindacalista varca i cancelli, si unisce agli operai che occupano lo stabilimento, parla e pranza con loro, li fa sentire meno abbandonati e soli, li invita a non mollare e a sperare. Quando stringe loro le mani per andarsene è ormai buio fitto.
Dal sindacato alla politica il passo è breve. Tre i fari ideali del politico Donat-Cattin:
- crede fermamente e applica il dettame di Paolo VI: «La politica è la forma più alta della carità»;
- considera la Dc nell’ottica sturziana del «partito di liberi e uguali»;
- dice al congresso Dc 1986: «Dovete avere pazienza e comprensione, ma io non sono un ragazzo del coro».
Più volte consigliere comunale e provinciale di Torino e nei comitati provinciale e regionale, nel 1954 è eletto nel Consiglio nazionale Dc e nel 1959 nella direzione del partito. Deputato dal 1958 e senatore dal 1979, è vicesegretario nel 1978-1980 e rappresenta la sinistra sociale, legata alla storia sociale e sindacale del movimento dei cattolici. Capo incontrastato dal 1964 di «Forze Nuove», assume prese di posizione molto nette, caparbie e franche, talora aspre, dialoga soprattutto con la «Base», l’altra componente della sinistra democristiana. Ha un rapporto privilegiato con Aldo Moro e il legame si consolida nell’esperienza del centro-sinistra e si intensifica dopo il 1968. Pietre miliari di «Forze Nuove» sono i convegni annuali, in particolare quelli a Saint-Vincent in Valle d’Aosta, e le riviste «Settegiorni» (1967-74) che segna una stagione di vivace confronto; e dal 1983 in omaggio a Moro, che ne aveva coniato l’espressione, «Terzafase». Con il terrorismo e l’assassinio di Moro a Roma il 9 maggio 1978 le cose cambiano. Al XIV Congresso nazionale Dc del 1980 con il «Preambolo», scritto di suo pugno, ribalta la maggioranza che guida la Dc – area di Zaccagnini più Andreotti – e mette una pietra tombale sulla «solidarietà nazionale» e sul «compromesso storico» tra Dc-Pci, maturato dal traumatico sequestro e assassinio di Moro. Avversa l’alleanza Dc-Pci perché vede in essa la saldatura fra i potentati economici, come la Fiat di Gianni Agnelli, e i comunisti interlocutrici del capitalismo perché detentori del potere nelle fabbriche. Rilancia l’alleanza con il Psi di Bettino Craxi.
Molto forte l’azione come ministro (17 volte). Dopo i primi impegni come sottosegretario alle Partecipazioni statali (1963-1968) si impone all’attenzione del Paese come ministro del lavoro (1969-72). È una fase molto acuta dello scontro sociale, il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, le bombe a Piazza Fontana a Milano (16 dicembre 1969), la strategia della tensione. La gestione dell’«autunno caldo» (1969) e l’approvazione dello «Statuto dei lavoratori» fanno del ministero del Lavoro e della Previdenza sociale un interlocutore privilegiato di Ministeri finanziari nella definizione e gestione della politica economico-sociale.
Nel 1968-69 il mondo del lavoro esplode ed erutta come un vulcano: scioperi, proteste, picchetti e rivolte. A Torino Gianni Agnelli diventa bersaglio degli operai furibondi: gli dedicano più filastrocche che a «Che» Guevara, più caricature che a Giulio Andreotti, più minacce che al segretario neofascista Giorgio Almirante. I giovani rivoluzionari salgono sugli autobus gridando «Paga Agnelli» e ritmano sui tamburi: «Agnelli, l’Indocina ce l’hai nell’officina. Pagherete caro, pagherete tutto». Il 3 luglio ’69 scontri davanti a Mirafiori. In settembre lo sciopero all’officina 32 blocca la produzione. La Fiat sospende 25.000 lavoratori. Con la mediazione del «ministro d’acciaio» Donat-Cattin, il 21 dicembre 1969 si firma il contratto dei metalmeccanici: 40 ore settimanali, aumenti salariali, diritto di assemblea. Sempre dalla parte dei lavoratori, innovatore nelle relazioni industriali, è consapevole dei pericoli di una incontrollata conflittualità. Lo «Statuto dei lavoratori» è il suo capolavoro, che divide a metà con il suo predecessore al ministero, il socialista Giacomo Brodolini. Questi ne ha l’intuizione, Donat-Cattin lo perfeziona.
Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno (1973-1974), si schiera contro le «cattedrali nel deserto». Ministero dell’industria (1974-1978) sviluppa un progetto di politica industriale, attivando un primo programma di risparmio energetico e sostenendo la necessità di una continua innovazione tecnologica. Ministro della Sanità (1986-1989), si impegna per la creazione di un sistema sanitario equo e non ha paura di sviluppare forti interventi in difesa del diritto alla vita e sul problema dell’Aids. L’ultimo impegno di governo dal luglio 1989 lo vede ancora ministro del Lavoro impegnato nella revisione del sistema pensionistico e presso la Comunità europea dove caldeggia politiche per la famiglia e per il lavoro.
Con la sposa, signora Amelia, va a confidare tutto alla Madonna Consolata nel suo santuario nel cuore di Torino. La sofferenza più devastante è la vicenda del figlio Marco coinvolto in fatti di terrorismo, arrestato, condannato, detenuto. Il ministro immediatamente si dimette. Il Pci di Enrico Berlinguer non gli perdona la fine del «compromesso storico» e lo attacca.
Dopo la tragica morte nel 1988 su un’autostrada mentre tenta di scongiurare un tamponamento, Donat-Cattin scrive al presidente della Repubblica: «Caro Cossiga, ti ringrazio del biglietto che hai voluto con tanta premura e tanto affetto farmi giungere dopo la morte di Marco. La fede è faticosa per la mia logorata umanità. Eppure “tutto è grazia”. La prova più problematica è quella di mia moglie: un figlio, giovane, ma figlio che vivo lacera il cuore, viene ripreso giorno per giorno, per anni di carcere (tutti quelli stabiliti, senza privilegi né consentite condizionali), recuperato da un amore senza confini. Ti ringrazio per il pensiero che le hai dedicato. Cerchiamo di pregare. Ti abbraccio».
Il suo cuore cede il 17 marzo 1991 a Montecarlo. Ai funerali di Stato nel Duomo di Torino il cardinale arcivescovo cardinale Giovanni Saldarini lo saluta «cristiano scomodo senza paura».
Il commento
Un carattere forte e intransigente
Abbiamo letto che di lui amava dire: «Non sono un ragazzo del coro». Carlo Donat-Cattin fu un cattolico rigoroso ed esigente, prima con sé stesso che con gli altri; un uomo che «portò avanti i suoi convincimenti con assoluta franchezza e onestà, disposto anche all’impopolarità», affermò il cardinale Giovanni Saldarini nell’omelia funebre. Sì-sì, no-no, per citare il Vangelo. «Quello che aveva in mente aveva sulle labbra», sosteneva padre Angelo Macchi, direttore di Aggiornamenti sociali.
Manifestò un carattere rude, ma anche un animo nobile, che lo spinse spesso a gettare il cuore oltre l’ostacolo nei momenti più difficili. Fu un cattolico scomodo, come veniva definito ai suoi tempi, notoriamente un “bastian contrario”.
Pensando alle due regioni d’origine, dalle montagne piemontesi si spiega la durezza e l’intransigenza, il mare e gli scogli liguri motivano la forza e le idee inflessibili. Se dalla madre ereditò il tratto nobile, dal padre, che fu tra i fondatori del Partito popolare a Torino e deportato nei campi di prigionia tedeschi, prese la vocazione democristiana e antifascista, ma le radici del suo impegno affondano alla Olivetti, dove lavorò inizialmente come operaio, poi come insegnante al centro di formazione. Allo stesso tempo entrò nel Cln come rappresentante della componente democratico-cristiana, e iniziò la sua militanza sindacale nonché la sua passione per il giornalismo, fondando il foglio clandestino Per il domani. Anche da politico di professione mantenne sempre, infatti, la cifra del sindacalista e del giornalista.
Il cattolicesimo sociale
Il cattolicesimo sociale lo respirò in famiglia e lo praticò tutta la vita. Nell’attività sindacale coerente e coraggiosa, a fianco della classe operaia, dove fu impavido e anche “duro” trattando con i “padroni”; nell’azione politica, nella dialettica della vita di partito, nella vivace attività parlamentare e in quella vigorosa di governo come ministro: di questa ispirazione ne parlò nelle conferenze, sui giornali e le riviste, la trasmise attraverso un giornalismo militante e incisivo.
Fu per oltre quarant’anni protagonista della vita pubblica italiana, mostrando una personalità complessa e passionale, che si espresse con battute fulminanti, scritti corrosivi; una tempra di lottatore anche con gli industriali. Capace di trascinare e coraggioso nel portare avanti i suoi convincimenti con assoluta franchezza e onestà, disposto anche all’impopolarità, ad apparire scomodo. Ma è stato pure fonte di ispirazione per molte generazioni di giovani impegnati. Visse sempre lontano dai salotti.
Donat-Cattin fu il leader storico della “sinistra sociale” della Dc e nel partito fu protagonista molto più di quanto non racconti il consenso di cui godette. Rappresentò una figura di riferimento e discussa, tanto da essere sgradito da una parte del suo stesso partito, la destra, anche per la sua intransigenza. Raggiunse, però, quella che si chiama la “la stanza dei bottoni”, soprattutto nel ruolo di ministro del lavoro: persona giusta al posto giusto nel momento giusto, in una stagione di forti contrasti, come le lotte sindacali del famoso “autunno caldo” del 1969, e di novità, tra le quali spicca lo Statuto dei lavoratori.
Dalla parte dei lavoratori
La figura di Carlo Donat-Cattin rappresenta in modo compiuto la storia dei diritti dei lavoratori, negli anni cruciali della seconda metà del Ventesimo secolo; si è sempre speso per tali diritti, a partire dal suo ingresso nelle Acli, e nel sindacato, prima nella Cgil, all’interno della corrente cristiana, e poi nella Cisl che lo vide tra i fondatori.
«La Costituzione entra nelle fabbriche», commentò il 14 maggio del 1970, quando lo Statuto dei lavoratori venne definitivamente approvato dal Parlamento. Lo scopo era di tutelare i lavoratori, andando ad affermare quali diritti e libertà essi detengono sul posto di lavoro, oltre ai doveri. Questi principi spinsero i ministri del lavoro Giacomo Brodolini e il successore, appunto Donat-Cattin, a battersi perché si arrivasse alla definizione di una legge in tal senso, tesa ad affermare un modo nuovo di intendere i lavoratori nella società: protagonisti, e non più sudditi; cittadini che partecipano alla costruzione della Repubblica, che la Costituzione fonda, per l’appunto, sul lavoro.
Il suo modo d’intendere il rapporto con il mondo fu sempre quello di un sindacalista nel senso più profondo e nobile del termine, nella capacità di riconoscere e favorire le esigenze concrete dei lavoratori e i loro bisogni reali, materiali e immateriali, il progresso delle condizioni di lavoro e di vita, la crescita culturale e umana.
Oltre allo Statuto due suoi interventi entrarono negli annali della storia sindacale e politica nazionale, connotandone la vocazione di affrontare i problemi in modo pragmatico e costruttivo. Il primo fu legato al rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici del 1969, accordo raggiunto grazie alla mediazione decisiva di Donat-Cattin, e che gettò le basi per un concreto avanzamento dei diritti collettivi e individuali, contribuendo a mantenere il conflitto sociale nel solco della legalità e della dialettica sindacale. Il secondo evento fu, molti anni dopo, il rinnovo del contratto dei bancari dell’aprile del 1990 e il lodo ministeriale grazie al quale fu sottoscritto dalle parti.
Una minoranza che conta
Un aspetto dell’esperienza politica di Donat Cattin è legato alla corrente democristiana alla quale diede vita, denominata «Forze nuove». La particolarità è stata di essere sempre una fazione di modeste dimensioni, ma in grado di svolgere comunque un ruolo: dimostrando che non conta solo la “quantità”, ma anche la “qualità” se presente e ben spesa, e che essa può essere un fattore importante, e pesare. Il rispetto e la stima li si conquista con le idee e l’impegno concreto. È vero che erano altri tempi, non c’erano leader come oggi e partiti personali e decisionisti, ma gruppi dirigenti espressione di una vasta base e provenienti da un percorso di formazione e di esperienze sempre più importanti; partiti pensanti, con un’elaborazione frutto di un impegno collettivo e di tanta passione. Un esempio significativo resta il già citato convegno annuale organizzato dalla sua corrente a Saint-Vincent, occasione per pensare, riflettere, discutere insieme.
Il rapporto con il Pci
Un ulteriore elemento della sua personalità e delle sue convinzioni politiche fu la sfiducia nei confronti dei comunisti italiani, non condivisa da altri nel suo partito, a cominciare da Aldo Moro. Era progressista, riformista, ma non vedeva il Pci come un alleato per costruire quella “Terza via” che voleva perseguire fra capitalismo e marxismo. Il 29 agosto 1977 Donat-Cattin scrisse a Moro per comunicargli la sua avversità alla linea della “solidarietà nazionale” alla quale Moro stava lavorando, mostrandosi scettico sulla «facile predicazione liberale dei comunisti italiani», e sull’ambigua esigenza «di governo e di lotta» di cui il Pci era portatore. Esemplare del tipo d’uomo che era fu l’aver considerato, comunque, un «capolavoro» il discorso con cui Moro, il 28 febbraio 1978, diede il via libera all’intesa.
Donat-Cattin anche in quell’occasione non mutò la sua visione del comunismo, che gli derivava dalla profonda formazione cattolica e dalla dottrina sociale della Chiesa, vista proprio come alternativa alla lettura marxista della società. Nello stesso tempo, però, forte della sua esperienza di sindacalista della Cisl e di politico impegnato sui temi del lavoro, accettava il dialogo.
Negli ultimi anni
Un dramma familiare sconvolse la vita e l’attività politica di Donat-Cattin, la scelta del figlio Marco di aderire al terrorismo in Prima linea; tale adesione suscitò scalpore e lo spinse a dimettersi da ogni incarico e abbandonare la politica, per poi accettare un incarico di ministro dopo la dissociazione del figlio, che ottenne gli arresti domiciliari nel 1985. La morte del giovane fu un ennesimo shock che lo segnò profondamente.
Negli anni successivi le ultime energie le spese a difesa del sistema proporzionale, «che in Italia ha portato al potere le grandi forze popolari», per combattere il presidenzialismo «plebiscitario» e il maggioritario, che considerava la sua anticamera, «che privilegia le scelte sulla persona, il successo, la ricchezza, molte volte emotive». Oggi appaiono considerazioni profetiche.
Le fonti
Il riferimento principale per approfondire la figura di Carlo Donat-Cattin è la Fondazione che porta il suo nome e che mette a disposizione un sito estremamente ricco. Ringraziamo la Fondazione stessa per aver redatto le note biografiche con le quali abbiamo aperto questa pagina.
Nella sede di via del Carmine 14 a Torino è presente un archivio, consultabile, che rappresenta uno degli elementi qualificanti della Fondazione e rappresenta una fonte di considerevole importanza per la storia delle correnti politiche e sindacali di ispirazione cattolica in Piemonte e nel Paese; esso consta di 55 fondi archivistici, in gran parte inventariati e disponibili per gli studiosi, per un ammontare di circa 15.000 unità semplici e complesse, oltre alle sezioni dei manifesti e delle fotografie. È anche disponibile una biblioteca, che trae origine dal quella personale di Donat-Cattin, composta dalla sezione dedicata alla storia del movimento cattolico, giornalismo, cultura politica, sociale e sindacale nella quale è documentata la sua vita pubblica e le sue diverse attività per un arco cronologico che va dal 1942 al 1991; e da quella riguardante le sue passioni private: la raccolta di preziosi libri d’arte; la collezione di opere di narrativa e poesia dei maggiori autori del secolo scorso, molte in prima edizione, e dei più importanti classici; quella di filosofia che annovera testi di filosofi e pensatori che hanno svolto un ruolo determinante nella sua formazione etica e culturale. La biblioteca si è andata arricchendo grazie a lasciti e donazioni provenienti da privati, da enti e istituzioni, ed è completata da una ricca emeroteca nella quale sono raccolti numerosi periodici a carattere politico, sindacale, sociale, storico e letterario. Dal 2016 la biblioteca, con quelle di altri 19 importanti istituti di ricerca del territorio, costituisce il Polo bibliografico della ricerca il cui patrimonio documentale catalogato in SBN è confluito nel Catalogo unico delle biblioteche dell’Università di Torino. Anche la biblioteca è disponibile per la consultazione presso la sede della Fondazione.
Essa ha realizzato e continua a produrre progetti ed eventi su una serie di tematiche, come le iniziative per celebrare, nel 2019, il centenario della nascita di Donat-Cattin.