Il fatto
Joe Biden è il quarantaseiesimo presidente degli Stati Uniti d’America. Anche se il cambio di amministrazione si sta dimostrando più complicata del solito.
È importante ricordare che il sistema statunitense presuppone, lo ricordano i costituzionalisti, un comportamento fair, per usare l’espressione inglese, costruttivo, da parte dei contendenti, con lo sconfitto che, dopo essersi battuto, concede la vittoria all’avversario: Trump non si è attenuto a ciò, come i suoi predecessori, anzi ha affermato, senza portare prove, di essere vittima di gravi irregolarità, smentito dai dati e dalla macchina elettorale, avviando il passaggio di consegne obtorto collo.
Dopo settimane di opposizione all’avvio del processo formale di transizione per l’insediamento del presidente eletto Trump ha ceduto, pur non riconoscendo ancora formalmente la sconfitta. La decisione di iniziare il cambio di amministrazione è stata presa dall’ente incaricato, il GSA (General Services Administration), che è autonomo dal governo, ma che aspettava il via libera del presidente uscente: la capo dell’ente, Emily Murphy, ha firmato la lettera che ha avviato il percorso dopo avere valutato la presenza di un vincitore chiaro delle elezioni presidenziali. La decisione è arrivata in seguito alla certificazione della vittoria nello stato del Michigan di Biden.
Questi, e l’apparato burocratico federale, hanno potuto dunque procedere per far nascere la nuova amministrazione. In particolare ha già iniziato a nominare i componenti del suo apparato, tra i quali i ministri, come il nuovo segretario di Stato (il responsabile degli Esteri), Antony Blinken e, a sorpresa, un “inviato speciale sul clima” nella persona di John Kerry, già stretto collaboratore di Biden durante la sua vicepresidenza.
Le principali linee programmatiche di Biden
L’esponente democratico ha espresso i cardini del suo progetto di governo, riassumibili in quattro priorità: lotta al Covid-19, ripresa economica, uguaglianza razziale e cambiamento climatico. I media americani, utilizzando alcune dichiarazioni fatte da Biden in questi mesi e fonti interne ai suoi più stretti collaboratori, hanno proposto un elenco più specifico delle possibili misure. Sulla pandemia ha compiuto il suo primo atto da presidente in pectore, nominando una task force di 13 persone, quasi tutti medici ed esperti di sanità pubblica, per consigliare lui e la vicepresidente su come affrontare la crisi da coronavirus: il segnale è di mostrare che le decisioni della prossima amministrazione saranno basate sulla scienza. Biden inoltre ha affermato durante la campagna elettorale che intende promuovere l’utilizzo delle mascherine a livello federale. Ha poi ribadito che cancellerà l’uscita degli Stati Uniti dall’Organizzazione mondiale della sanità, decisa da Trump lo scorso anno.
Sul fronte economico, a causa del Covid-19, la situazione è seria, con una decisa flessione del PIL e un notevole deficit dei conti pubblici, elementi che devono essere affrontati con decisione attraverso misure fiscali e di politica monetaria, per la lotta alla disoccupazione e il sostegno alle imprese. Biden potrebbe invocare il Defense Production Act, una legge approvata durante la Guerra di Corea che consente al presidente di ordinare alle fabbriche di produrre beni necessari alla sicurezza nazionale, legge usata piuttosto liberamente da quasi tutti i predecessori per molti scopi, che potrebbe essere applicata anche contro la pandemia per aumentare la fornitura di respiratori polmonari e altri dispositivi medici. Inoltre ha indicato di voler incrementare il salario minimo federale a 15 dollari l’ora, riprendere in mano i temi dei diritti sindacali e della contrattazione collettiva, sviluppare in particolare la transizione economica in chiave eco-sostenibile e nell’ammodernamento delle infrastrutture.
Sul clima ha assicurato il rientro nell’Accordo di Parigi, da cui gli Stati Uniti sono usciti ufficialmente il 5 novembre; ha chiarito che intende ripristinare le norme di protezione dell’ambiente cancellate da Trump.
Ha promesso di rafforzare ulteriormente il programma di Obama, bocciato da Trump, che tutelava 700.000 minorenni entrati negli Stati Uniti illegalmente quando erano bambini, e che rischiavano l’espulsione e ha garantito di creare una task force per rintracciare i genitori di centinaia di minori separati dalle loro famiglie a causa delle politiche migratorie trumpiane. Intende anche approvare un piano per proteggere i senzatetto.
Biden potrebbe infine istituire nuove regole etiche, come per esempio una che impedisca ai membri dell’amministrazione di interferire con le indagini del dipartimento di Giustizia e ripristinare un regolamento etico, voluto ancora una volta da Obama, che vieta ai funzionari pubblici di ricevere regali da lobbisti e impedisce loro di entrare in gruppi di lobby nei due anni successivi all’abbandono dell’impiego governativo.
In un’intervista radio a luglio, Biden promise che nel suo primo giorno di mandato avrebbe telefonato a tutti gli alleati della NATO per proclamare: «Siamo tornati e potete contare di nuovo su di noi», gesto simbolico, ma importante perché indica un superamento della politica internazionale dell’amministrazione precedente.
Gli ultimi giorni di Trump
Come potrebbe agire invece il presidente uscente in questo scorcio di mandato, essendo in grado di operare con la maggior parte dei suoi poteri? Gli osservatori prefigurano uno scenario nel quale licenzi diversi collaboratori che mal sopporta da tempo, e alcuni li ha già privati del loro incarico, e utilizzi, come altri hanno fatto, la facoltà di concedere la grazia ad alcuni personaggi. C’è chi prevede, addirittura, che Trump decida di graziarsi da solo in forma preventiva, per tentare di evitare dei processi che potrebbero attenderlo una volta uscito dalla Casa Bianca: su questo si manifesta una discussione tra i giuristi. Infine sarebbe intenzionato a occuparsi di diverse questioni in sospeso con decreti esecutivi, strumenti legislativi che non richiedono l’approvazione del Congresso e che ha già utilizzato nel passato, ciò per mettere in difficoltà il successore, come ad esempio con una parziale riforma restrittiva della normativa sull’immigrazione, alcune concessioni petrolifere, il ritiro delle truppe da Iraq e Afghanistan per complicare i processi di pace, l’insediamento di funzionari a lui vicini in importanti organismi statali.
Il commento
Il risultato delle elezioni negli USA sollecita riflessioni e apre scenari sui quali soffermarsi.
La partecipazione al voto
Un primo dato importante è relativo alla partecipazione: oltre 160 milioni di americani hanno espresso il loro orientamento, pari a oltre il 66% degli aventi diritto, un record per le presidenziali: per fare un raffronto erano stati 136 milioni nel 2016 e 129 quattro anni prima, e 103 milioni hanno votato anticipatamente, di persona o per posta. Tra gli stati il Minnesota ha la percentuale più alta con l’81%, mentre l’Alaska è il fanalino di coda col 36%. Questo elemento rappresenta un fattore significativo per la democrazia e il coinvolgimento popolare, spesso considerato negli USA, e non solo, modesto. Sembra affiorare un clima nuovo, con una voglia di esprimersi, di schierarsi e difendere le proprie posizioni.
Una componente non secondaria è stata la radicalizzazione degli schieramenti, stimolata da Trump in questi anni, per cui anche i più tiepidi sono stati spinti a votare, magari per quello che hanno ritenuto il male minore. Certamente la pandemia ha poi convinto molti alla modalità per posta, che ha favorito la partecipazione.
L’analisi dei risultati
I democratici hanno vinto, anche se qualcuno insinua che sia Trump ad aver perso, ma per i repubblicani non si tratta di una sconfitta, anche osservando l’esito della consultazione per quanto concerne Camera e Senato. Infatti i risultati per il partito e il suo candidato sono comunque rilevanti. Mai un presidente in carica ha ottenuto tanti voti, segno di un ampio consenso. Ciò che Trump rappresenta non può essere liquidato con superficialità, poiché rispecchia il sentire di molta parte dei cittadini americani. L’interrogativo è: perché tanti ripongono fiducia in lui, pur con le contraddizioni manifestate in questi anni, ad esempio il mentire e il diffondere notizie false, come messo in risalto anche dalla stampa. Se il loro leader populista e sovranista non ha raggiunto l’obiettivo della rielezione non significa che il populismo e il sovranismo siano stati sconfitti, o che alcune problematiche di fondo siano state risolte.
Ma perché, malgrado tutto, il suo consenso è aumentato? Una prima risposta è legata al buon andamento dell’economia e dei livelli occupazionali, prima della crisi pandemica: per chi è in difficoltà non importa quale sia la scelta della direzione dello sviluppo, l’importante è lavorare e, nella cultura iper-capitalista americana, il PIL è da porre sopra ogni altro aspetto, anche alla salute.
Un’analisi del voto mostra con estrema chiarezza non solo la spaccatura dell’elettorato (73,8 milioni di voti contro 69,3), ma anche le profonde differenze territoriali; i centri urbani hanno premiato Biden e i democratici, mentre le zone rurali, di provincia diremmo noi, l’America profonda, hanno privilegiato Trump e i repubblicani. In questo vi è una similitudine con la tendenza manifestata anche in Italia: le città appaiono più “progressiste” dei piccoli centri. La frattura, che col bipartitismo statunitense è un fatto risaputo, si percepisce però differente rispetto al passato, con caratteri più vicini al tifo e all’estrema personalizzazione, in particolare per quanto concerne Trump: molte espressioni, soprattutto nei social, appaiono proprio tipiche dello scontro fra tifoserie.
Un’osservazione emersa sul risultato elettorale ha posto l’accento su una vittoria ottenuta soprattutto mobilitando il centro politico. C’è chi invece fa notare come molte indicazioni fornite da Biden in campagna elettorale siano avanzate, ispirate da criteri egualitari e abbiano avuto il loro peso nel successo dei democratici. Per fare qualche esempio, diverse affermazioni su politiche di giustizia sociale e redistributiva, lotta alla discriminazione razziale «sistemica», come è stata definita dalla Vice Harris, alleggerimento e anche cancellazione dei debiti degli studenti dei college, revisione in meglio della riforma sanitaria di Obama, miglioramento delle condizioni salariali.
La campagna elettorale
Quali sono stati gli elementi cruciali che hanno influenzato la campagna elettorale? Certamente la pandemia, e il rapporto con la Cina, hanno messo in evidenza Trump, le cui posizioni erano nette, mentre quelle di Biden apparivano più sfumate; però sul terreno più generale della sanità il secondo è emerso come più convincente. Sul piano dell’economia Biden ha recuperato nel corso dei mesi rispetto a Trump, in particolare riguardo alle energie rinnovabili e, globalmente, a una prospettiva green conquistando simpatie tra chi è sensibile a ciò, per contro i settori più tradizionali sono stati decisamente più vicini a Trump.
Questi ha riproposto i contenuti espressi quattro anni fa e che hanno caratterizzato la sua presidenza, convincendo i suoi elettori a confermarlo: il nazionalismo esasperato, le posizioni su ambiente e sanità, la riforma fiscale, le scelte in economia. Ma un’altra parte dell’America non gli ha perdonato l’approccio alla pandemia: la sottovalutazione del problema, «una brutta influenza» aveva affermato, il ridicolizzare la mascherina, la scelta di non fermare il Paese, neppure davanti ai morti.
Biden deve molto al Covid-19 e alla gestione da parte di Trump dell’emergenza: oltre 250.000 americani sono deceduti e decine di milioni si trovano ridotti in povertà.
Due candidati profondamente diversi
Un elemento da far rilevare sono le differenze tra i due rivali. Biden è un politico esperto, di lunga data, una vita nel cuore del sistema bipartitico, pacato, ma deciso. Trump è, si potrebbe sostenere, un neofita della politica: non ha percorso la trafila classica che quasi sempre prevede incarichi elettivi nel proprio stato poi un posto al Congresso. La prima esperienza diretta l’ha fatta da presidente, dopo una vita da imprenditore famoso e di successo, seppure discusso. Trump ha posto in risalto alcune contraddizioni della politica statunitense, sposandone una parte nel modo più estremo, con comportamenti sguaiati, bugiardi, feroci, ma radicali, facendo leva sulle ingiustizie e sugli istinti di una cittadinanza debole ed emarginata.
Esiti contraddittori
Queste elezioni hanno nominato senatori e deputati, ma anche deciso referendum locali, con risultati spesso clamorosi: in Florida ha vinto Trump, ma il salario minimo sale a 10 dollari l’ora per crescere di un dollaro l’anno fino a 15; in Indiana, a maggioranza repubblicana, è passata una proposta per finanziare le scuole pubbliche e in Arizona sono stati stanziati un miliardo di dollari per l’istruzione statale; a Portland, nel Maine, è passato il calmiere per gli affitti, una norma contro la sorveglianza facciale e direttive ambientali che somigliano al Green new deal, bandiera di Bernie Sanders, altro democratico che ha partecipato senza successo alle primarie del partito e collocato decisamente più a sinistra di Biden. A Boulder, Colorado sono state istituite tasse per i proprietari immobiliari che finanzieranno gli sfrattati, e nell’intero Colorado sono state approvate le aspettative per maternità. In Oregon i grandi patrimoni saranno tassati per finanziare gli asili nido. Il Nevada ha deciso di imporre ai fornitori di energia elettrica di raggiungere il 50% da fonti rinnovabili entro il 2030. A Los Angeles sarà proibito attingere al bilancio del sociale per pagare carceri e polizia. Tutte scelte non certo condivise da Trump.
A Chicago, San Louis, Orlando e Los Angeles sono stati eletti procuratori riformisti. Al Congresso è stata eletta in blocco The Squad, battagliera pattuglia di deputate “socialiste” Ocasio-Cortez, Omar, Pressley e Tlaib, e un’altra ventina deputati della stessa piattaforma.
Nelle urne è successo quindi qualcosa. C’è una domanda di politiche progressiste. Le risposte contenute nella campagna elettorale di Biden sembrerebbero confortanti.
La prima vicepresidente donna
Una sottolineatura particolare merita la designazione di una donna alla seconda carica dello stato: una novità. Ciò dovrebbe essere d’esempio per tutto il mondo e, guardando a casa nostra, per porre grande attenzione perché la presenza femminile in politica e nelle amministrazioni sia sempre più ampia, nonché allo scopo di utilizzare come criterio basilare di selezione la competenza, la bravura in politica, che certo non mancano a Kamala Harris.
Le reazioni nel mondo
I riflessi alla notizia he Biden aveva superato la soglia necessaria di grandi elettori non sono state univoche. Alcuni leader, come Merkel, Macron, il canadese Trudeau, il presidente Mattarella, hanno inviato le loro congratulazioni pochi minuti dopo, altri hanno aspettato del tempo, alcuni non l’hanno fatto e se lo faranno sarà a malincuore, poiché la politica estera di Trump è stata favorevole ad alcuni paesi, come ad esempio la Russia di Putin e il Brasile di Bolsonaro.
Un accenno meritano le relazioni con il Regno Unito. Trump ha spalancato le braccia a Boris Johnson in relazione alla Brexit, offrendo accordi commerciali molto vantaggiosi; la posizione di Biden sarà un’altra.
Un’attenzione particolare va posta sulla differenza di percezione del Presidente uscente tra l’Europa e i cittadini americani: per molti di loro egli è stato un fattore positivo per l’economia, pur con i suoi difetti. La situazione economica, infatti, ha giocato un ruolo rilevante, soprattutto per alcune minoranze, una parte dei giovani e per chi ha tratto vantaggio dalle politiche di Trump. All’estero sono stati percepiti altri elementi, nel bene e nel male, come il nazionalismo.
Una transizione difficile
Se è certo che Joe Biden sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti, è altrettanto probabile che un pezzo della popolazione americana rischi di considerarlo illegittimo, abusivo, prima ancora che eventualmente un presidente da contestare politicamente, a causa della posizione tenuta da Trump e dai suoi seguaci in queste settimane. Inoltre, il mancato riconoscimento della vittoria potrebbe essere di ostacolo alla transizione da un’amministrazione all’altra, e questa circostanza ha conseguenze potenzialmente pericolose. Negli Stati Uniti quando si avvicendano due governi non cambiano solo i ministri, ma la molta parte dei funzionari.
Sul piano politico l’obiettivo dell’atteggiamento di Trump sarebbe guidato dal tentare di creare una narrazione che gli permetta di rivendicare per molto tempo di essere stato battuto in un’elezione truccata, e provare a lasciare la Casa Bianca senza l’etichetta dello sconfitto.
Il partito Repubblicano non assunto una posizione netta per alcune ragioni. La base del partito è ancora dalla parte di Trump: chiunque voglia essere candidato nelle file repubblicane, a tutti i livelli, sa di non poter fare a meno dei suoi sostenitori. Inoltre il 5 gennaio si terranno in Georgia due ballottaggi decisivi per stabilire chi avrà la maggioranza al Senato: i Repubblicani corrono il rischio che i Democratici controllino contemporaneamente Camera, Senato e, naturalmente, la Casa Bianca. Assecondare Trump è utile per motivare gli elettori del Partito.
Un voto molto caro
Il costo delle elezioni rivela l’importanza della posta in gioco per i partiti. Il Center for Responsive Politics ha stimato un importo superiore agli undici miliardi di dollari, sommando le spese della campagna elettorale per il Congresso e la presidenza, con un incremento superiore al 50% rispetto alle elezioni del 2016. Metà del costo è legato al duello per la Casa Bianca, 5,2 miliardi, più del doppio rispetto a quattro anni or sono.
Un sistema migliorabile
Le vicissitudini successive al voto hanno posto in risalto alcuni limiti del sistema elettorale statunitense. La non omogeneità delle normative dei diversi stati, spesso modificate, che mettono in difficoltà gli elettori e creano confusione, dovendo trattare in modo differente ogni problema emergente a seconda della legislazione statale. Molti studiosi hanno suggerito nel corso del tempo di affrontare la questione per rendere lo scenario più semplice e comprensibile.
Il paese che ha sviluppato, tra i primissimi, un sistema di democrazia rappresentativa dovrebbe porsi la domanda sul suo funzionamento. Ricordiamo che uno dei più importanti politologi degli USA, Robert Dahl, ha intitolato un suo libro: Quanto è democratica la costituzione americana?
Lo stesso interrogativo vale per il suo sistema elettorale?
Le fonti
Il meccanismo elettorale
Gli Stati Uniti d’America sono una repubblica presidenziale federale composta da 50 stati e un distretto, quello della Columbia, dove si trova la capitale Washington. Le competenze e le funzioni federali e statali sono stabilite dalla Costituzione, che è comune a tutti gli stati. Ciascuno di essi possiede un governo e un’amministrazione a sé stante, in grado di stabilire leggi diverse non presenti in altri. Il presidente è il rappresentante dell’intera federazione e nel contempo il capo del governo, nel quale nomina i ministri.
Il meccanismo elettorale degli USA è molto diverso da quello che conosciamo in Italia.
I riferimenti sono la Costituzione del 1787 e l’Electoral Count Act del 1887, che regola le procedure, nonché le normative di ciascun stato. Molto in sintesi, chi elegge in realtà il capo della confederazione è l’Electoral College, composto da 538 delegati, designati dal voto. Ogni stato esprime un numero di “grandi elettori” in base ai rappresentanti al Congresso, con una logica per la quale il candidato presidente con più voti fa suoi tutti i delegati di quello stato, con l’eccezione del Nebraska e del Maine nei quali vige un sistema proporzionale. Chi raggiunge la maggioranza dei grandi elettori viene poi da loro formalmente eletto.
Si spiega così la ragione per la quale un candidato può ottenere la maggioranza dei voti popolari e non essere presidente, come accaduto nel 2016 a Hillary Clinton che ebbe tre milioni di voti assoluti in più rispetto a Trump, ma fu sconfitta.
La procedura prevede che gli stati nominino ufficialmente i loro delegati, in base al risultato elettorale, entro l’8 dicembre, e sei giorni dopo i 538 votino per designare il presidente. A seguire il 3 gennaio si insedia il nuovo Congresso; il 6 Camera e Senato, in seduta comune, contano i voti dell’Electoral College e ufficializzano l’elezione; il 20 avviene l’insediamento del nuovo inquilino della Casa Bianca.
Chi sono gli eletti?
Chi desidera conoscere meglio Biden e la vicepresidente Kamala Harris può andare alla ricerca di molti articoli scritti in questo periodo su di loro.
Solo per citare gli elementi più rilevanti si può ricordare di Joseph Robinette Biden, nato a Scranton in Pennsylvania il 20 novembre 1942 e, da giovane, di professione avvocato, la sua precocità come politico, in quanto eletto senatore del Delaware a neanche trent’anni, una lunga carriera culminata, almeno fino ad ora, con la vicepresidenza a fianco di Barak Obama dal 2009 al 2017. Le vicende personali sono meno luminose della sua ascesa in politica, poiché nel 1972 perse la prima moglie e una figlia di 13 mesi in un incidente automobilistico, nel quale furono gravemente feriti anche i figli Joseph e Robert. Il primo seguì il padre in politica, ma venne stroncato nel 2015 a 46 anni da un tumore al cervello. Dopo aver cresciuto i ragazzi da solo, anche spinto da loro, si è risposato nel 1977 con Jill Tracy Jacobs, e dalla loro unione nel 1981 è nata Ashley. La famiglia, nel corso del tempo, si è arricchita di sette nipoti. È da sottolineare che è il secondo presidente cattolico dopo John Kennedy. Il quotidiano online Il Post ha pubblicato un articolo con alcune interessanti storie e curiosità su di lui.
Kamala Devi Harris è nata a Oakland in California nel 1964, da madre di origine indiana e padre giamaicano. Dopo gli studi in legge è stata viceprocuratrice distrettuale nella contea di Alameda e, nel 2003 è stata eletta procuratrice distrettuale di San Francisco, carica che ha conservato fino al 2010 quando diventa procuratrice generale della California, prima donna a ricoprire tale carica che, come le precedenti, sono frutto di voto popolare. Nel 2016 si candida ed entra al Senato, incarico che lascia per essere la vice di Biden, prima donna nella storia degli USA.
Una straordinaria testimonianza
Desideriamo concludere con un episodio non attinente alle elezioni appena avvenute, bensì a quelle del 2008 che videro la vittoria di Barak Obama. In quel frangente John MacCain, il candidato repubblicano sconfitto e scomparso dieci anni dopo a causa di un tumore, pronunciò un discorso straordinario come dimostrazione di fede nella democrazia, di amore per la politica e il proprio Paese.
Riportiamo la traduzione di una sua parte significativa. Forse oggi qualcuno dovrebbe ricordarsene ed essere un esempio per tutti.
«Amici miei, siamo arrivati alla fine di un lungo viaggio. Il popolo americano ha parlato e ha parlato chiaramente. Poco fa, ho avuto l’onore di chiamare il senatore Barack Obama per congratularmi con lui per essere stato eletto come nuovo presidente del paese che entrambi amiamo.
In una sfida lunga e difficile come è stata questa campagna elettorale, il solo fatto che Obama abbia vinto basta a guadagnargli il mio rispetto, per la sua abilità e la sua perseveranza. Ma il fatto che vi sia riuscito incoraggiando la speranza di tantissimi milioni di americani che un tempo credevano, sbagliando, di avere poco da perdere o guadagnare, o di avere poca influenza nell’elezione di un presidente degli Stati Uniti è qualcosa che ammiro profondamente e che mi spinge a elogiarlo per esservi riuscito.
Questa è un’elezione storica e io riconosco l’importanza speciale che essa possiede per gli afroamericani, e il particolare orgoglio che devono provare stanotte.
Sono sempre stato convinto che l’America offre opportunità a tutti coloro che hanno l’industriosità e la volontà per coglierle. Anche il senatore Obama è convinto di questo. Ma tutti e due siamo consapevoli che, anche se abbiamo fatto molta strada da quelle antiche ingiustizie che un tempo macchiavano la reputazione della nostra nazione e negavano ad alcuni americani i pieni benefici della cittadinanza, la loro memoria ha ancora il potere di fare male.
Un secolo fa, quando il presidente Theodore Roosevelt invitò Booker T. Washington (nota: un educatore e scrittore statunitense, leader della comunità nera a cavallo tra la fine dell’800 e il 900, primo afroamericano ad essere ricevuto alla Casa Bianca nel 1901) ad andarlo a trovare nella Casa Bianca, a cenare con lui, questo invito fu accolto in molti ambienti come un oltraggio. L’America oggi è lontana mille anni dalla crudele e altezzosa intolleranza di quei tempi. Non c’è prova migliore di questo del fatto che un afroamericano sia stato eletto alla presidenza degli Stati Uniti. Facciamo in modo che ora non vi sia più alcuna ragione per cui un americano possa non tenere in gran conto il fatto di appartenere a questa nazione, la più grande nazione della terra.
Il senatore Obama ha ottenuto un grande risultato per se stesso e per il suo paese. Io lo applaudo per questo e gli porgo le mie sincere condoglianze per il fatto che la sua amata nonna non sia riuscita a vivere per vedere questo giorno, anche se la nostra fede ci assicura che lei riposa in pace alla presenza del suo creatore e che è estremamente orgogliosa del brav’uomo che ha contribuito a crescere.
Io e il senatore Obama abbiamo avuto divergenze e ci siamo confrontati su di esse, e lui ha prevalso. Indubbiamente, molte di quelle divergenze rimangono. Sono tempi difficili per il nostro paese, e io questa notte mi impegno con lui a fare tutto quanto sarà in mio potere per aiutarlo a guidarci attraverso le tante sfide che dobbiamo affrontare.
Esorto tutti gli americani che mi hanno sostenuto a unirsi a me non soltanto per fargli le congratulazioni per la sua vittoria, ma per offrire al nostro presidente la nostra disponibilità e i nostri sforzi più convinti per trovare dei modi per marciare uniti, per trovare i necessari compromessi, per superare le nostre divergenze e per contribuire a riportare la prosperità, a difendere la nostra sicurezza in un mondo pericoloso e a lasciare ai nostri figli e nipoti un paese più forte, un paese migliore di quello che noi abbiamo ricevuto.
A prescindere dalle nostre divergenze, siamo tutti americani. E vi prego di credermi quando dico che nessun legame ha mai contato per me più di questo.
È naturale, è naturale questa notte provare una certa delusione, ma domani dovremo superarla e lavorare insieme per far ripartire il nostro paese. Abbiamo combattuto, abbiamo combattuto con tutte le nostre forze.
E anche se non ci siamo riusciti, il fallimento è mio, non vostro.
Io sono profondamente grato a tutti voi per il grande onore che mi avete fatto dandomi il vostro appoggio e per tutto quello che avete fatto per me. Vorrei che fosse andata in un altro modo, amici miei. La strada era in salita fin dall’inizio. Ma il vostro sostegno e la vostra amicizia non ha mai vacillato. Non ho parole sufficienti per esprimere quanto sia debitore nei vostri confronti. […]
Non so che cos’altro avremmo potuto fare per cercare di vincere queste elezioni. Lascerò ad altri il compito di stabilirlo. Qualsiasi candidato commette degli errori e sono sicuro che anch’io ne ho commessi. Ma non passerò nemmeno un istante del futuro che mi attende a rimpiangere quello che sarebbe potuto essere.
Questa campagna è stata e rimarrà il più grande onore della mia vita. E il mio cuore è colmo soltanto di gratitudine per questa esperienza e di gratitudine verso il popolo americano per avermi dato ascolto prima di decidere che fossero il senatore Obama e il mio vecchio amico, il senatore Joe Biden, ad avere l’onore di guidarci per i prossimi quattro anni.
Non sarei un americano degno di questo nome se dovessi rimpiangere un destino che mi ha offerto lo straordinario privilegio di servire questo paese per cinquant’anni. Oggi ero candidato alla carica più alta di questo paese che tanto amo. E questa notte rimango al suo servizio. È una fortuna sufficiente per chiunque e per questo ringrazio il popolo dell’Arizona.
Questa notte, più di ogni altra notte, provo nel mio cuore soltanto amore per questo paese e per tutti i suoi cittadini, sia che abbiano votato per me sia che abbiano votato per il senatore Obama, e auguro buon viaggio all’uomo che è stato il mio avversario e che sarà il mio presidente.
E faccio appello a tutti gli americani, come spesso ho fatto nel corso di questa campagna elettorale, a non abbattersi per le nostre attuali difficoltà, ma a credere sempre nella promessa e nella grandezza dell’America, perché qui non esiste nulla che sia inevitabile.
Gli americani non rinunciano mai. Noi non ci arrendiamo mai. Noi non ci nascondiamo mai dalla storia, noi facciamo la storia.
Grazie, che Dio vi benedica, e che Dio benedica l’America. Grazie mille a tutti voi.»