Brusca: la giustizia ci interroga

Il fatto

I primi giorni di giugno sono stati, dopo 25 anni, anche i primi di libertà per Giovanni Brusca. Era stato arrestato, infatti, il 20 maggio del 1996 come uno dei più potenti ed efferati boss della mafia.

A lui sono stati attribuiti uno sterminato numero di omicidi, oltre un centinaio, dei quali due sono quelli sempre ricordati: l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo e la strage di Capaci, nella quale persero la vita il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Le immagini dell’autostrada sventrata, delle vetture distrutte e dei corpi dilaniati, insieme alla tremenda ricostruzione della morte del bambino, prima strangolato e poi sciolto nell’acido dopo una lunghissima prigionia, rimangono tra le più raccapriccianti manifestazioni delle atrocità mafiose.

L’impianto legislativo voluto da Falcone stesso, e in particolare il trattamento dei cosiddetti pentiti, ha consentito a Brusca di usufruire da qualche anno di permessi, della scarcerazione per fine pena e di essere sottoposto a un programma di protezione, con una nuova identità, una residenza segreta e un lavoro, anche se dovrà scontare ancora quattro anni di libertà vigilata, come deciso dalla Corte d’Appello di Milano.

Brusca venne infatti condannato all’ergastolo, ottenendo per la collaborazione uno sconto di pena a 26 anni, per cui sarebbe dovuto uscire nel 2022, ma per buona condotta ha potuto usufruire di un ulteriore accorciamento della pena.

Ripercorrendo la strada criminale e la collaborazione con la giustizia, ancora avvolta da molte ombre e, forse, un certo numero di omissioni, si spiega l’indignazione seguita alla notizia della sua liberazione.

È significativo riportare, tra le tante dichiarazioni, quella della sorella del giudice assassinato e della vedova di Antonio Montinaro, il capo scorta di Falcone. La prima ha affermato: «Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata. Mi auguro solo che magistratura e forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere, visto che stiamo parlando di un soggetto che ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia assai tortuoso». Ha poi aggiunto che «la stessa magistratura in più occasioni ha espresso dubbi sulla completezza delle rivelazioni di Brusca, soprattutto quelle relative al patrimonio che, probabilmente, non è stato tutto confiscato. Non è più il tempo di mezze verità e sarebbe un insulto a Giovanni, Francesca, Vito, Antonio e Rocco che un uomo che si è macchiato di crimini orribili possa tornare libero a godere di ricchezze sporche di sangue».

La seconda ha asserito con durezza: «Sono indignata, lo Stato ci rema contro, noi dopo 29 anni non conosciamo ancora la verità sulle stragi e Giovanni Brusca, l’uomo che ha distrutto la mia famiglia, è libero».

 

 

Il commento

Immaginare che la concessione di benefici penitenziari all’”assassino” Brusca non avrebbe determinato polemiche appare poco verosimile.

Né era imprevedibile che, su un tema così influenzabile da valutazioni di natura anche “etica”, la lucidità di giudizio potesse essere in parte offuscata dalla tifoseria. I commenti sono stati tanti, di ogni segno.

Oggi, dopo qualche giorno dal fatto “scarcerazione”, dopo che la notizia è uscita dai titoli dei quotidiani per tornare nell’irrilevanza mediatica, vale la pena svolgere qualche riflessione di merito.

La pena e la rieducazione

Con l’Ordinanza n. 97 dell’11 maggio 2021 la Corte Costituzionale, dopo che la Corte di Cassazione aveva sollevato questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli articoli 3, 27 e 117 delle norme sull’”ergastolo ostativo” «nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale» ragionando sui principi, e non in forza dell’emotività estemporanea ha affrontato un tema che va ben oltre il “caso Brusca”.

Se, come è vero, si assume che in Italia prevalga lo Stato di diritto alla vendetta, se come è parimenti vero che la Costituzione affermi che a lato di una pena da intendersi quale retribuzione essa assuma sempre una indiscutibile valenza “rieducativa”, allora occorre ammettere che qualsiasi norma che di fatto neghi tale seconda finalità sia incostituzionale perché nei fatti rinnega la possibilità rieducativa di cui si è detto.

Questa, tra le varie, è una delle ragioni del perché affermazioni quali “buttate via la chiave” o “uccideteli”, con riguardo ai colpevoli di reati gravissimi, siano incompatibili con il nostro sistema di valori costituzionali.

Nella ordinanza predetta, che si cita solo in quanto recentissima e in tema, la Corte Costituzionale mette in risalto come sia proprio l’effettiva possibilità di conseguire la libertà condizionale a rendere compatibile la pena perpetua con la Costituzione; se questa possibilità fosse preclusa in via assoluta, l’ergastolo sarebbe invece in contrasto con la finalità rieducativa della pena (articolo 27, terzo comma, Costituzione).

Questa è la prima ragione del perché il clamore sul “caso Brusca” sia stato in effetti del tutto sproporzionato.

Ma esiste, poi, una seconda e più rilevante ragione.

Una seconda opportunità per tutti

Per un condannato “eccellente” quale Brusca, esistono centinaia di migliaia di condannati “qualsiasi” che affidano alla potenza rieducativa della pena, alla “seconda” possibilità che viene loro concessa, al sistema dei benefici penitenziari, la loro vita futura.

Per essi il carcere diventa l’”incidente di percorso” che, capitato, consente di tornare nell’alveo del lavoro, dell’onestà, della socialità positiva.

Non è quindi corretto giustificare il “caso Brusca” solo in quanto male minore in relazione ai benefici eventuali che la sua “collaborazione” possa aver portato, per esempio, in indagini complicate di mafia, consentendo plurimi arresti  che non sarebbero, viceversa, mai avvenuti ma, ed è un grande “ma”, proprio la prospettiva che il Brusca abbia beneficiato di regole “generali” che ridanno, in “positivo”, ogni anno la “speranza” di un nuovo futuro non criminale a centinaia di migliaia di detenuti è il lato bello di questa vicenda.

Una ricerca del 2007 promossa dal Ministero della Giustizia dal titolo Rassegna penitenziaria e criminologica evidenziava come tra i rilasciati nel 1998 nel 68,45% dei casi considerati, chi era stato liberato, aveva ricevuto una nuova condanna entro 7 anni. Ma attenzione! Tra chi, prima della liberazione, era stato affidato in prova ai servizi sociali i recidivi erano solo il 19% mentre l’81% degli affidati ai servizi sociali, al contrario, nei sette anni successivi non riceveva condanne (cfr. https://blog.openpolis.it/2016/11/21/lefficacia-delle-misure-alternative-al-carcere-nel-ridurre-i-recidivi/105). Ecco una buona riflessione da avviare.

Il conflitto tra legge e sentimenti

Le reazioni alla scarcerazione di Giovanni Brusca, ne abbiamo citate due di persone direttamente coinvolte da uno dei crimini da lui commessi, sono state di dolore e indignazione, pur ricordando il valore del pentitismo nella lotta alla criminalità organizzata.

È emerso il conflitto tra la legge, che stabilisce norme che vanno seguite, che piaccia o no, e i sentimenti.

Le norme, ripetiamo fortemente volute da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e altri, hanno consentito tanti pentimenti, testimonianze che hanno condotto ad arresti, processi e condanne, a colpire la criminalità: sono state un’arma formidabile per combattere questa guerra. Infatti Brusca non è il primo che ha usufruito dei benefici previsti per i pentiti. La sua collaborazione gli ha consentito di usufruire di uno sconto di pena e le sue informazioni sono state utili per alcune indagini sui delitti di mafia, come l’omicidio del giudice Rocco Chinnici nel luglio del 1983, del commissario Beppe Montana nel luglio di due anni dopo, del vicequestore Ninni Cassarà nell’agosto ’85.

Si tratta però di distinguere tra l’impossibilità di dimenticare il sangue versato e il dolore provocato dal corso della giustizia e dall’applicazione delle leggi, che devono rispondere ad altre esigenze.

L’opinione di Giovanni Falcone

Sul tema è di grande interesse riportare il parere espresso dallo stesso giudice Falcone in occasione di un intervento a un congresso (più ampiamente riportato nella terza parte della pagina): «Per quanto mi riguarda, debbo esprimere il mio avviso favorevole alla introduzione di una legislazione premiale che sancisca, a determinate condizioni, specifici benefici, in termini di pena e di altri effetti processuali, a favore di chi collabora con la giustizia… Si sostiene talora che lo Stato, attraverso le dichiarazioni dei “pentiti”, viene strumentalizzato da costoro per la consumazione di sottili vendette personali, ma si dimentica che uno degli specifici compiti statuali è quello di sostituire alla vendetta la giustizia, impedendo che i cittadini ricorrano alla violenza. Inoltre, il fatto che, per la prima volta, autorevoli membri di organizzazioni criminali, che hanno sempre ritenuto disonorevole il ricorso all’autorità statuale, abbiano deciso di affidare allo Stato, implicitamente riconoscendone l’autorità, l’appagamento della loro sete di vendetta, lungi dal far gridare allo scandalo, dovrebbe far ritenere positivo questo fenomeno quale chiara espressione del declinare della tradizionale omertà».

Le dichiarazioni di Luigi Ciotti

Importante riportare l’opinione di Luigi Ciotti, impegnato sul campo da decenni, espresso in un’intervista a Famiglia Cristiana. Il primo pensiero è per chi è stato toccato negli affetti più profondi: «Lo stato d’animo dei famigliari delle vittime di mafia è comprensibile e legittimo. La maggior parte di loro attende ancora verità e giustizia». Prosegue, facendo riferimento alla sua esperienza personale: «bisogna credere nel cambiamento delle persone, nella capacità di riscattarsi dal male, il male subito ma anche il male compiuto».

Elenca poi alcuni elementi da tenere presenti. «Primo. Dalla scelta di collaborare di Brusca lo Stato ha tratto un innegabili vantaggi, come è stato riconosciuto da figure importanti della stessa magistratura. La sua confessione ha infatti permesso una grande quantità di arresti e un netto indebolimento della Cosa Nostra stragista dei “Corleonesi”. Secondo. Decidendo di collaborare Brusca sapeva bene a cosa andava incontro, conoscendo dall’interno l’organizzazione criminale di cui svelava i segreti. Andava incontro a una condanna a morte perché la mafia non perdona chi tradisce, a maggior ragione se il “traditore” è stato una figura non secondaria dell’organizzazione. Terzo. La legislazione sui “pentiti” e “collaboratori di giustizia” è stata voluta fortemente da Giovanni Falcone. Certo si è trattata di un’extrema ratio, ma si è rivelata efficace con la mafia così come si era rivelata efficace con il terrorismo politico. La giurisprudenza deve misurarsi a volte con vicende storiche che richiedono nuovi parametri perché ci pongono di fronte a mali che non possono essere combattuti con strumenti ordinari. Quarto elemento. Concordo con il Procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho quando dice che l’uscita dal carcere di Brusca non è una sconfitta ma una vittoria dello Stato. Lo Stato deve dimostrare una levatura morale superiore a quella dei suoi avversari o attentatori, e questa superiorità si dimostra anche attraverso una giustizia che non sia vendetta, che garantisca da una parte una giusta pena, dall’altro uno spiraglio di speranza per chi sconta la pena e dimostra nei fatti di essere cambiato, di stare dalla parte della giustizia. Del resto si tratta di un principio sancito dall’ articolo 27 della Costituzione laddove si parla di pene che devono tendere alla “rieducazione” del condannato».

Alla domanda sulla sensibilità della comunità ecclesiale su questi temi e sulla sua evoluzione, Ciotti elenca una serie di tappe importanti, dalle parole di don Luigi Sturzo nel 1900 a quelle di Giovanni Paolo II nel 1993, finendo con le parole di Papa Francesco nell’ omelia della Santa Messa celebrata il 21 giugno 2014 alla Piana di Sibari in Calabria, “quando definì la mafia “adorazione del male” e dunque i mafiosi “scomunicati”, non in comunione con Dio”. Cita anche, come “molto importanti”, “il documento della Conferenza episcopale calabra, Per una nuova evangelizzazione della pietà popolare”, il documento dei Vescovi della Capitanata sulla mafia foggiana, Giustizia per la nostra terra, e il documento contro il fenomeno della camorra dei vescovi della Conferenza episcopale della Campania: Per amore del mio popolo non tacerò (1982), la lettera dei vescovi di Sicilia a 25 anni dall’appello di San Giovanni Paolo II: Convertitevi!.

Non solo tappe positive però, perché “permangono eccessi di prudenza, rigidità, zone d’ombra”. Resiste “l’idea che si possa essere cristiani senza un impegno per la giustizia sociale né un forte senso delle responsabilità civili dà luogo, in certi casi, a inquietanti forme di indulgenza – e perfino di copertura – verso forme di religiosità del tutto strumentali, come quelle esibite da alcuni esponenti delle cosche mafiose. Ecco allora la necessità, per la Chiesa, di continuare a saldare con forza il Cielo e la Terra, la dimensione spirituale con l’impegno sociale e, pur nella specificità del proprio ruolo, di far sentire la sua voce contro le mafie e tutte le forme di “mafiosità” – corruzione, egoismo, indifferenza – che spianano la strada al potere delle organizzazioni criminali”. Con un augurio finale: “Auspico che nell’annunciato Sinodo della Chiesa Italiana vengano affrontati anche i temi legati a mafie e corruzione”.

 

 

Le fonti

Ricostruiamo brevemente la figura di Giovanni Brusca. È nato il 20 febbraio 1957 a San Giuseppe Jato in provincia di Palermo, figlio del boss di Cosa nostra Bernardo Brusca, ha percorso tutta la strada malavitosa della mafia per diventare il capo dei Corleonesi dopo l’arresto di Totò Riina e di Leoluca Bagarella. È stato condannato per oltre un centinaio di omicidi da lui direttamente eseguiti (è stato quello che spinse il tasto che provocò l’esplosione della bomba di Capaci), o dei quali era uno dei mandanti, come la strage di via D’Amelio nella quale persero la vita il giudice Borsellino e i cinque agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Tra i soprannomi riportati dagli organi di stampa spiccano «U Verru» (il Porco), come sembra fosse chiamato in Cosa nostra, e «Scannacristiani».

Riportiamo uno stralcio del già citato intervento che il giudice Giovanni Falcone pronunciò nell’aprile 1986 a Courmayeur, al convegno “La legislazione premiale”, pubblicato su Avvenire del 3 giugno. Il documento è stato recuperato da Giovanni Paparcuri, unico sopravvissuto all’attentato contro il giudice Rocco Chinnici, poi stretto collaboratore dello stesso Falcone e oggi custode e guida del Museo Falcone e Borsellino.

«Finora – secondo un costume purtroppo tipico del nostro Paese – il fenomeno del pentitismo, specie nell’ambito della criminalità organizzata non caratterizzata politicamente, è stato vissuto in modo troppo emozionale e concitato; e le polemiche, sterili e spesso ingiustificate, hanno creato un clima certamente non favorevole per un dibattito approfondito – e soprattutto sereno… Per lunghi anni abbiamo tollerato quasi con indifferenza che la criminalità organizzata raggiungesse in Italia livelli assolutamente intollerabili per qualsiasi convivenza civile, sino a costituire un gravissimo pericolo per la stessa stabilità delle istituzioni democratiche. Le istruttorie tuttora in corso in diverse sedi giudiziarie stanno portando alla luce realtà estremamente inquietanti e particolarmente complesse, fatte di ibridi connubi fra criminalità organizzata, centri di poteri extraistituzionali e settori devianti dello Stato, che hanno la responsabilità di avere tentato ad un certo punto perfino di condizionare il libero svolgimento della democrazia e di avere ispirato crimini efferati.

Era scontata nell’opinione pubblica la inefficienza di polizia e magistratura – accomunate in una generale e qualunquistica valutazione negativa –, e il mitico strapotere della mafia e delle organizzazioni similari costituiva un comodo alibi, bisogna riconoscerlo, per gravi comportamenti omissivi di tanti organismi statuali. Le uccisioni, sempre più frequenti, di malavitosi, non di rado venivano ritenute – tanto ipocritamente quanto fallacemente – un fatto non dannoso per la società, perché, in siffatta maniera, si eliminavano pericolosi delinquenti; e si è perfino tollerato che, in una città come Palermo, venissero progressivamente assassinati tutti i massimi vertici delle istituzioni; fatto, questo, unico al mondo. Quando un intensificato impegno ed una migliore professionalità di settori di polizia e magistratura hanno gradualmente consentito risultati sempre più incisivi nella repressione della criminalità organizzata, ha cominciato a manifestarsi, anche in questo settore, il fenomeno del cosiddetto “pentitismo”.

Soltanto, infatti, quando lo Stato nel suo complesso ha mostrato di “voler far sul serio” ed è apparso più credibile anche agli occhi della stessa criminalità, sono intervenute le prime dissociazioni e la formale collaborazione degli imputati con la giustizia, che finalmente infrangeva il mito del- l’omertà, uno dei principali ostacoli per il raggiungimento di concreti risultati… A questo punto, un osservatore ingenuo avrebbe pensato che si sarebbe cercato in tutti i modi di favorire un fenomeno che costituisce una vera e propria mina vagante che viene ad incrinare la coesione e la impermeabilità delle organizzazioni criminose alle indagini giudiziarie. Ma per gli “addetti ai lavori” era fin troppo agevole prevedere che il pentitismo nella criminalità comune avrebbe provocato reazioni violente, e che si sarebbe tentato di ostacolarlo, utilizzando e strumentalizzando indubbi inconvenienti e pericoli e, in particolare, gli inevitabili errori che sarebbero stati commessi dagli inquirenti di fronte a situazioni indubbiamente nuove, quanto meno per le loro dimensioni…

È sufficiente rilevare che – a prescindere dalle vere ragioni del suo comportamento processuale, che possono essere le più svariate e perfino poco commendevoli – il “pentito” ben difficilmente potrà mai rientrare, per intuitive ragioni, nel circuito della criminalità, e cioè nello stesso ambiente di cui fanno parte i soggetti di cui ha denunciato, in modo eclatante, i misfatti. È da escludere, quindi, a mio parere, l’esistenza di un concreto pericolo che la legislazione premiale costituisca incentivazione della pericolosità sociale dei soggetti che hanno collaborato con la giustizia… In queste condizioni è fin troppo facile prevedere che, senza un intervento legislativo che preveda effetti favorevoli per il “pentito”, il fenomeno della collaborazione con la giustizia degli imputati è destinato ad esaurirsi in breve tempo. Se è questo che si vuole e se si ritiene che, di fronte ad una criminalità organizzata dilagante e sempre più minacciosa, lo strumento del pentitismo non rappresenti un utile mezzo di indagini istruttorie, occorre che lo si dica chiaramente affinché, per lo meno, non si ingenerino illusioni o aspettative in coloro che, sia pure per mero tornaconto personale, avevano ritenuto ingenuamente che il loro contributo all’accertamento di gravissimi crimini sarebbe stato apprezzato, prima o poi, dal Paese.

Per quanto mi riguarda, debbo esprimere il mio avviso favorevole alla introduzione di una legislazione premiale che sancisca, a determinate condizioni, specifici benefici, in termini di pena e di altri effetti processuali, a favore di chi collabora con la giustizia… Si sostiene talora che lo Stato, attraverso le dichiarazioni dei “pentiti”, viene strumentalizzato da costoro per la consumazione di sottili vendette personali, ma si dimentica che uno degli specifici compiti statuali è quello di sostituire alla vendetta la giustizia, impedendo che i cittadini ricorrano alla violenza. Inoltre, il fatto che, per la prima volta, autorevoli membri di organizzazioni criminali, che hanno sempre ritenuto disonorevole il ricorso all’autorità statuale, abbiano deciso di affidare allo Stato, implicitamente riconoscendone l’autorità, l’appagamento della loro sete di vendetta, lungi dal far gridare allo scandalo, dovrebbe far ritenere positivo questo fenomeno quale chiara espressione del declinare della tradizionale omertà…

Anche il timore che il pentitismo possa costituire una pericolosa ed illusoria scorciatoia nella via dell’accertamento della verità è, a mio avviso, infondato. Non si nega che talora non sia stato esercitato il necessario, rigoroso vaglio critico sulle dichiarazioni dei pentiti, e che le stesse siano da considerare, per ovvi motivi, delle fonti di prova sospette. Ma non mi sento di condividere le affermazioni di chi ne afferma l’inutilità o addirittura la dannosità per le indagini… Il problema della efficienza non viene, dunque toccato dalla legislazione premiale, ma ci riconduce, ancora una volta alla professionalità di polizia e di magistratura, necessaria in tema di criminalità organizzata più che in altri settori… Qui basterà ricordare che la dichiarazione del “pentito” è solo uno dei tanti mezzi a disposizione del magistrato inquirente, e che l’esito positivo di un’indagine giudiziaria dipende dall’uso sapiente dei mezzi più appropriati, per cui le ammissioni e le chiamate in correità debbono costituire orientativamente conferma di risultati probatori acquisiti o spunto per ulteriori indagini…
Certamente, non si intende dare copertura ed appoggio ad eventuali abusi ed esagerazioni che, in materia, possono essere stati commessi. Ma da ciò trarre le premesse per ostacolare il fenomeno del pentitismo sarebbe un errore di portata storica. È necessario che si discuta approfonditamente sulle eventuali norme più idonee ad assicurare che le propalazioni dei “pentiti” vengano assunte nel rigoroso rispetto della legalità democratica e del diritto di difesa. E si accerti pure col maggiore scrupolo quali possono essere i benefici più opportuni a favore dei “pentiti”, non in contrasto col principio costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale. Ma mi sembrerebbe assurdo che, in virtù di malintesi principi garantistici, si dovesse rinunziare allo strumento del pentitismo che, sia pure tra luci ed ombre, ha consentito finalmente una chiave di lettura dall’interno della criminalità organizzata, aprendo importanti brecce nel muro dell’omertà, finora ritenuto impenetrabile».