Adriano Olivetti affermava: «nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario più basso». Non è andata così! Nel 2020 la media delle remunerazioni dei primi 10 top manager italiani era di 649 volte lo stipendio medio annuo di un operaio. Questo mentre in Italia, unico Paese tra i 27 dell’Unione Europea, il salario medio dal 1990 a oggi ha subito una riduzione. È necessario aggiungere che una percentuale cospicua di persone, pur lavorando, percepisce redditi prossimi alla soglia di povertà.
Il delicato tema è affrontato in un importante contributo delle ACLI dal titolo Proposte. Tra salario minimo garantito e guadagno massimo consentito, che fornisce alle forze politiche e alle parti sociali alcune indicazioni che possano contribuire a una seria e serena discussione.
Alcuni dati
Nessuna azienda prospera se non ha un bravo manager e dei bravi amministratori, ma si fa poca strada anche senza i dipendenti: un’azienda ha successo col contributo delle due parti. Gli emolumenti ovviamente dipendono dalla mansione e dal grado di responsabilità. Ma quanta differenza è accettabile? Olivetti disse la sua opinione, ma è condivisa?
Negli Stati Uniti dal 2018 le aziende sono obbligate a dichiarare alla Sec (Securities and Exchange Commission, l’ente federale statunitense che vigila sulle borse) la differenza di stipendio tra il loro amministratore delegato e il salario medio dei dipendenti. Ecco alcuni esempi di imprese universalmente conosciute: il Ceo della Coca Cola nel 2020 ha guadagnato 18,4 milioni di dollari, 1621 volte più del salario medio; l’Ad del gruppo Hilton 55,9 milioni, quando una cameriera dipendente del gruppo in Italia prende 1.000 Euro netti al mese.
Più in generale, secondo l’ultimo rapporto dell’Institute for Policy Studies, il divario è in continua crescita. Se nel 2021 in 106 delle 300 aziende USA analizzate lo stipendio medio dei lavoratori non ha tenuto il passo con l’inflazione, la retribuzione dei Ceo delle imprese osservate è aumentata di 2,5 milioni di dollari. Il divario medio nel campione è balzato a 670 a 1, rispetto a 604 a 1 nel 2020 e 49 aziende avevano rapporti superiori a 1.000 a 1.
In Italia nel 2008 la media delle retribuzioni dei primi dieci top manager italiani era di 6,4 milioni di euro, vale a dire 416 volte lo stipendio medio; nel 2020 era di 649 volte. È importante domandarsi se vi è relazione tra simili cifre, che appaiono esagerate, e i risultati dell’azienda. Ecco alcuni esempi estremi: il Ceo di Unicredit ha percepito nel 2021 7 milioni e mezzo di Euro, confermati nel 2022 nonostante la banca abbia un rischio di perdita di 5,2 miliardi per l’esposizione con la Russia; nel 2021 l’Ad di Tim ha lasciato l’azienda, che perdeva 8 miliardi, ma lui ha incassato 6,9 milioni di buonuscita, nulla a confronto del suo predecessore che dopo solo un anno ne aveva presi 25.
In sintesi: dal 1978 al 2018 in tutto il mondo occidentale il salario del lavoratore medio è cresciuto di circa l’11%, mentre quello degli amministratori delegati del 940%.
Una repubblica fondata sul lavoro. E la democrazia
La Costituzione, all’articolo 36, stabilisce che il lavoratore deve ricevere una retribuzione proporzionata alla «qualità e quantità del suo lavoro», ma anche e soprattutto sufficiente «ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Il lavoro delle ACLI commenta: «Questo è il traguardo da perseguire, in un contesto non certo privo di criticità, anche a causa dell’inflazione e della crisi perdurante, causata dall’emergenza sanitaria prima e dalla guerra in Ucraina poi. Il lavoro povero, infatti, non è un’eccezione, ma la punta di un iceberg di un fenomeno ampiamente funzionale al nostro sistema economico e alle sue catene di produzione e filiere; una realtà quotidiana che zavorra il futuro del Paese, riguardando circa il 12% dei lavoratori italiani».
Le disparità e i problemi legati al reddito segnalate da più parti non comportano solo ripercussioni economiche sulle singole persone: l’impoverimento e le disuguaglianze, che riguardano in particolare le donne, hanno significato spreco di risorse, di passione, competenze e intelligenze, gettiti previdenziali e fiscali che non permettono investimenti in politiche pubbliche e industriali, un welfare dignitoso.
La filosofia delle ACLI
«La strategia della nostra proposta, risiede in un duplice dato di realtà: da un lato occorre un’attività legislativa che sappia agire per riconoscere e far crescere la democrazia nella sua socialità, nella capacità di assumersi responsabilità e corresponsabilità. Serve rafforzare e ravvivare, per non dire rigenerare, il pilastro costituzionale dell’autonomia delle formazioni sociali. Dall’altro lato, invece, lo Stato non può rischiare di far parti uguali tra diseguali, non può stare a guardare l’oggettivo indebolimento della voce del lavoro».
Le proposte delle ACLI
1 Più e migliori controlli, sui contratti e i diritti, sulle condizioni di lavoro e il rispetto delle regole, sugli appalti e le scelte al massimo ribasso.
2 Un indice del lavoro libero e dignitoso per annullare i contratti “pirata” e una nuova definizione “oggettiva” della retribuzione sufficiente e degli altri aspetti non monetari atti a garantire «un’esistenza libera e dignitosa». Si tratta di avviare un percorso che porti a tale definizione da valutare e aggiornare sotto l’egida dell’Istat.
3. Individuare una soluzione sperimentale per i settori lavorativi caratterizzati da minor tutela o maggiore rischio che preveda in talune situazioni una soglia legale minima oraria di compenso.
4. Contemplare una scala mobile temporanea per affrontare i problemi dei contratti non rinnovati per molti anni, che includa un parziale adeguamento dei salari ai tassi d’inflazione.
5. Premiare le aziende che promuovono pratiche collaborative e migliorative nei contratti di lavoro e che investono in conciliazione, parità di genere, formazione, giustizia ambientale e partecipazione dei lavoratori e del territorio alle decisioni imprenditoriali.
6. Introdurre il Guadagno Massimo Consentito, come rispetto di un’indicazione implicita dell’articolo 36 della Costituzione e come misura che affronti «un’economia senza regole, un’economia dell’avidità, la greed economy, che sempre più la fa da padrona». Non significa perorare un egualitarismo che nega il merito, «ma qui ormai il merito lo fa la ricchezza e non più il contrario». Tale limite dovrebbe riguardare non solo gli alti dirigenti, ma anche i meccanismi speculativi.
7. Affermare con forza che «un’altra scuola è possibile», rimettendo al centro l’educazione, l’apprendimento cooperativo, un accompagnamento e un orientamento personalizzati, insieme alla valorizzazione della formazione professionale e a una revisione della scuola secondaria: un’istruzione ben fatta è condizione indispensabile per la crescita della democrazia e della comunità.
8. Promuovere un piano straordinario per l’occupazione femminile.
9. Potenziare la formazione permanente insieme a politiche attive per l’occupazione.
Alcune riflessioni conclusive
Il lavoro possiede una dimensione soggettiva e una oggettiva. La prima, intrinsecamente umana, rappresenta un contributo alla costruzione della persona, uno degli aspetti con i quali si realizza. Dunque ha un valore etico. La seconda è quanto si compie per portare un contributo alla costruzione della società e alla “gestione” della Terra. Anche in questo caso l’elemento etico è rilevante.
Sono moralmente accettabili, quindi, le disuguaglianze presentate? Certamente no. Non si tratta di auspicare un’uguaglianza di principio, è necessario considerare le cose sotto il profilo della giustizia e della solidarietà.
Bisogna ascoltare il grido di chi un lavoro non ce l’ha o di chi ha un salario non sufficiente a vivere un’esistenza dignitosa, di indignarsi e chiedere che la Costituzione sia davvero rispettata.