Dal cognome sembrerebbe avvicinare un tedesco, invece si tratta di un francese, alsaziano. Per la verità nacque in Germania, quando la sua regione apparteneva a essa, per poi cambiare nazionalità nel 1918, a 43 anni, allorquando il dipartimento dell’Alto Reno ritornò a essere territorio tricolore.
Albert Schweitzer non è certo oggi un personaggio famoso, pur essendolo stato durante la sua lunga vita, grazie alla singolare poliedricità e al Premio Nobel per la pace attribuitogli nel 1952. Eclettico lo fu certamente: divenne pastore dopo gli studi filosofici e teologici, insegnante, preside di facoltà e direttore del seminario, concertista di organo, autore di opere teologiche e di ambito musicale, una seconda laurea in medicina a 38 anni e il resto della vita speso a servizio degli ultimi in un ospedale a Lambaréné, una città del Gabon occidentale, una volta provincia dell’Africa Equatoriale Francese. In merito a tale scelta scrisse: «Qui molti mi possono sostituire anche meglio, laggiù gli uomini mancano. Non posso più aprire i giornali missionari senza essere preso da rimorsi. Questa sera ho pensato ancora a lungo, mi sono esaminato sino al profondo del cuore e affermo che la mia decisione è irrevocabile».
La vita
Albert Schweitzer nacque a Kaysersberg, nell’Alta Alsazia alle porte di Colmar, il 14 gennaio 1875, da Luis, pastore protestante e insegnante, e da Adèle Schillinger, figlia anche lei di un pastore e organista come lo sarà il nipote. Dopo pochi mesi il padre divenne parroco a Gunsbach, una cittadina sempre nei pressi di Colmar, dove la famiglia si stabilì definitivamente, con Albert e altri cinque tra sorelle e fratelli.
Il piccolo Albert fu un bambino riservato, appassionato, rispettoso degli altri, riflessivo e sensibile: di sé diceva di aver ereditato la timidezza dalla madre e una certa vivacità dal padre. Non fu uno studente particolarmente brillante, eccellendo invece nella musica e diventando un precoce organista, tanto da sostituire a soli nove anni il suo insegnante e suonatore dell’organo nella chiesa di Gunsbach. Nel 1885 fu deciso che frequentasse il liceo a Mulhouse e si trasferì da una coppia di zii. Furono anni difficili, separato non solo dalla famiglia e dagli amici, ma soprattutto dalla natura, che amò sempre; però, grazie soprattutto alla zia e all’arrivo di un nuovo insegnante, il giovanissimo Albert superò le difficoltà e si appassionò in particolare alla storia e alle scienze naturali, proseguendo lo studio della musica suonando pianoforte e organo.
Ottenuto il diploma, nel 1893 si iscrisse all’Università di Strasburgo seguendo corsi di filosofia e teologia e laureandosi con una tesi sul ruolo della religione in Kant. Conclusi gli studi, nel 1899 divenne vicario della parrocchia di Saint-Nicolas a Strasburgo, cui fece seguito la cattedra di teologia nella locale università della quale divenne, l’anno dopo, rettore di facoltà e direttore del seminario teologico.
La vita di pastore e docente non lo soddisfaceva appieno, lui sensibile fin da bambino alle situazioni di povertà e di difficoltà. Sentì quindi un irresistibile richiamo, una vocazione, a impegnarsi a servizio dei più deboli. Più tardi scriverà: «Il progetto che stavo per mettere in atto lo portavo in me già da lungo tempo. La sua origine rimontava ai miei anni di studentato. Mi riusciva incomprensibile che io potessi vivere una vita fortunata, mentre vedevo intorno a me così tanti uomini afflitti da ansie e dolori […] Mi aggrediva il pensiero che questa fortuna non fosse una cosa ovvia, ma che dovessi dare qualcosa in cambio […] Quando mi annunciai come studente al professor Fehling, allora decano della Facoltà di Medicina, egli avrebbe preferito spedirmi dai suoi colleghi di psichiatria». Nel 1905 si inscrisse quindi alla facoltà di medicina, completando la formazione accademica con un dottorato conseguito nel 1913, con l’obiettivo di trasferirsi in Africa e lavorare per l’assistenza medica in un contesto drammatico, dopo essere venuto a conoscenza che una società missionaria parigina impegnata in missioni nel Gabon era priva di personale medico qualificato.
La scelta, condivisa con la moglie Hélène Bresslau, i due si erano sposati nel 1912 dopo il diploma di infermiera di Hélène, fu quella di recarsi a Lambaréné e organizzare un piccolo ospedale, in mezzo a mille difficoltà. Il “grande medico bianco” le superò e divenne un punto di riferimento, aiutato da un gruppo di medici volontari che crebbe intorno a lui.
La guerra mondiale ebbe delle conseguenze dirette sulla coppia che, come cittadini tedeschi, furono imprigionati dalle autorità francesi, per poi essere rilasciati grazie all’intervento di amici parigini e fare ritorno in Alsazia.
Nel 1924 tornarono in Africa dove trovarono l’ospedale distrutto per il tempo trascorso. La struttura venne ricostruita, in un primo tempo, e poi trasferita e ampliata nel 1927.
Schweitzer alternò l’impegno di medico e amministratore dell’ospedale con periodi in Europa nei quali insegnava, scriveva libri, teneva conferenze e, soprattutto, concerti per finanziare le attività sanitarie.
Nel 1952 fu insignito del premio Nobel per la Pace col cui ricavato fece costruire un villaggio per lebbrosi, impegnandosi in prima persona nella battaglia contro le armi nucleari.
Morì nel 1965, poco dopo la moglie, nel villaggio di Vasto, dove decise di rimanere negli ultimi anni.
Il commento
La grandezza di una persona si misura sulle scelte che compie e sulla coerenza con esse. Per questo Albert Schweitzer va ricordato: per il coraggio di lasciare tutto, una vita comoda e appagante, per qualcosa di più. Ovviamente spinto da importanti valori.
Il rispetto per la vita
Il nostro testimone ebbe una visione estremamente moderna del concetto, anche grazie alle esperienze fatte in Africa, concependolo in una prospettiva integrale, di considerazione per l’importanza dell’esistenza delle persone come di tutte le altre forme di vita.
Nel corso della sua esistenza ha manifestato questo principio praticandolo concretamente con il rispetto del diritto alla vita, la sua libertà e dignità, il suo sviluppo, il suo valore, in tutte le sue manifestazioni. Ha poi insegnato a mettere in pratica le proprie convinzioni: con l’impegno di teologo, filosofo e medico ha impresso al proprio pensiero la forza del testimone, ponendo in primo piano e vivendo in prima persona la solidarietà.
Un’etica
Tali convinzioni erano sostenute da una filosofia della vita fortemente ancorata a un preciso atteggiamento morale. La sua considerazione partiva da una critica al mondo moderno, che giudicava decadente a causa del fatto che al progresso materiale non corrispondesse un altrettanto progresso morale. Egli riteneva mancasse la ricerca di una profondità di pensiero.
Per questo dedicò molti anni alla riflessione sul tema partendo dalla convinzione che essa non ha rapporto con un’interpretazione del mondo, bensì dovrebbe essere «cosmica e mistica», senza cadere nell’astratto, e la concretezza dell’essere etici è considerare sacra la vita in se stessa e comportarsi di conseguenza, allo scopo di realizzare il progresso e lo sviluppo dei valori che possano consentire la crescita materiale e spirituale di ogni singola persona e di tutta l’umanità.
Teologia e storia
Il nostro testimone è stato un chiarissimo esempio di una personalità in grado di coniugare la riflessione e l’azione, l’elaborazione intellettuale e il realismo. In tutti gli intensissimi anni nei quali era assorbito dall’attività medica a Lambaréné continuò a studiare, scrivere, parlare. La sua attività di organista non rimase mai fine a se stessa, o un’occasione per mostrarsi (era infatti timido e poco amante della notorietà), bensì rappresentava un modo per finanziare l’ospedale.
Le sue elaborazioni, comunicate attraverso i libri e le conferenze, sono sempre legate alle esperienze vissute in prima persona e, viceversa, azioni e realizzazioni sono fondate e guidate da un pensiero profondo. Pensiero e azioni che affondavano le radici e si alimentavano nella fede che lo accompagnò per tutta l’esistenza.
Il Nobel per la Pace
Il suo impegno di medico e le posizioni assunte nei confronti delle guerre gli valsero l’importante riconoscimento, senza dimenticare la sua opposizione intransigente al nazismo, anche come cittadino tedesco per nascita, come chiaramente affermato in un famoso discorso tenuto a Francoforte nel 1932, dopo il quale decise di non fare mai più ritorno in Germania.
Le sue convinzioni partivano dalla constatazione di un aumento della mancanza di umanità e dai mezzi messi a disposizione dal progresso tecnologico, prime fra tutti le armi nucleari, per cui «il destino dell’umanità è segnato dalla possibilità di un orribile annientamento della vita», citando una sua riflessione esposta nel discorso pronunciato in occasione del conferimento del premio.
In una lunga fase nella quale la guerra era considerata un male accettabile per l’evoluzione della storia e il progresso, egli si collocò su posizioni completamente differenti: «È evidente che una guerra rappresenta una orribile calamità, e non bisogna lasciar nulla di intentato pur di evitarla; e ciò, soprattutto per una ragione etica. Nelle due ultime guerre ci siamo macchiati delle colpe di un’orribile disumanità, e sarebbe ancora peggio in una guerra futura. Questo non deve avvenire». Risulta evidente l’estrema attualità di un tale monito.
Un esempio per tutti
Schweitzer non si considerava un eroe per essere andato in Africa, si trattava di adempiere a un dovere etico, di rispondere a un richiamo che spingeva la sua libertà interiore a mettersi in gioco, a cambiare per aiutare gli altri a crescere e vivere meglio. Era cosciente delle difficoltà che avrebbe incontrato, delle privazioni e dei sacrifici, ma riteneva quella l’unica strada da percorrere.
Certo, non tutti sentono tale vocazione, ma ognuno è necessario scelga il suo percorso, la sua Africa, per impegnarsi a servizio degli altri. Per operare bene servono le stesse caratteristiche che egli ha dovuto praticare: la preparazione, la forza interiore, una spiritualità matura, la consapevolezza del proprio posto nel mondo.
In questo senso Albert Schweitzer può ispirare anche il nostro cammino.
Le fonti
Il modo migliore per approfondire la figura del nostro testimone è recarsi a Gunsbach, piccolo centro nei pressi di Colmar, e visitare la Maison Albert Schweitzer, o almeno accedere al sito omonimo.
Il nostro testimone ha scritto molte opere, alcune delle quali tradotte in italiano, tra le quali La mia vita e il mio pensierodel 1931 e la raccolta Rispetto per la vita. Gli scritti più importanti nell’arco di un cinquantennio raccolti da Hans Walter Bahr. Numerosa è anche la bibliografia su di lui.
Preziosa è la documentazione video disponibile in rete, ove spicca un breve filmato nel quale suona al pianoforte un brano di Bach in compagnia dei suoi amati gatti. Sempre in rete vi sono dei documentari su di lui, come uno prodotto dalla Rai per “La storia siamo noi” e, per bambini e ragazzi, un cartone animato che presenta la sua vita.
Come sempre concludiamo con alcune citazioni.
«La mia giovinezza è stata particolarmente felice. […] Mi sentivo schiacciato sotto il peso di questa felicità, e mi chiedevo se avevo il diritto di accettare questo dono come del tutto naturale.»
«È la capacità dell’uomo di empatizzare con tutte le creature viventi che fa di lui veramente un uomo.»
«L’esempio non è la cosa che influisce di più sugli altri: è l’unica cosa.»
«Lo spirito dell’uomo non è morto. Continua a vivere in segreto… È giunto a credere che la compassione, sulla quale si devono basare tutte le filosofie morali, può raggiungere la massima estensione e profondità solo se riguarda tutti gli esseri viventi, e non solo gli esseri umani.»
«Nessuno dovrebbe tollerare che vengano inflitte agli animali delle sofferenze e neppure declinare le proprie responsabilità. Nessuno dovrebbe starsene tranquillo pensando che altrimenti si immischierebbe in affari che non lo riguardano. Quando tanti maltrattamenti vengono inflitti agli animali, quando essi agonizzano ignorati per colpa di uomini senza cuore, siamo tutti colpevoli.»
«La musica e i gatti sono un ottimo rifugio dalle miserie della vita.»
«Nostro dovere è prendere parte alla vita e averne cura. Il rispetto reverenziale per tutte le forme di vita rappresenta il comandamento più importante nella sua forma più elementare. Ovvero, espresso in termini negativi: “Non uccidere”. Prendiamo così alla leggera questo divieto che ci troviamo a cogliere un fiore senza pensarci, a pestare un povero insetto senza pensarci, senza pensare, orribilmente ciechi, non sapendo che ogni cosa si prende le proprie rivincite, non preoccupandoci della sofferenza del nostro prossimo, che sacrifichiamo ai nostri meschini obiettivi terreni.»«La fortuna è la sola cosa che si raddoppia quando la si condivide.»