Come ogni anno l’Economist diffonde i dati provenienti dal Democracy index, esaminando lo stato della democrazia globale nel 2023.
La buona notizia è che il numero dei paesi classificati come democrazie è salito di due unità raggiungendo un totale di 74 su 167, tuttavia esaminando altri parametri l’anno non è stato positivo, infatti l’indice generale è sceso a 5,23 rispetto a 5,29 del 2022, in linea con la tendenza al ribasso caratteristica degli ultimi anni e segnando il nuovo minimo dall’inizio dell’indice, nel 2006. La regressione è stata causata dalle non-democrazie classificate come regimi ibridi e regimi autoritari.
Secondo la partizione dell’indice quasi la metà della popolazione mondiale, il 45,4%, vive in una situazione riferibile alla democrazia, anche se solo il 7,8% risiede in una piena democrazia e il 37,6% si trova in una democrazia debole; per contro il 15% è in un regime ibrido e più di un terzo vive in regimi autoritari (39,4%): una percentuale che negli anni è andata aumentando.
Come funziona
L’indice utilizza una serie di indicatori per decifrare il punteggio di ciascun paese, riferiti ad alcuni ambiti quali il processo elettorale e il pluralismo, un governo funzionante, la partecipazione politica dei cittadini, la cultura e l’ambiente politico e, infine, le libertà civili.
A ogni indicatore viene attribuito un punteggio e la somma di tutte le valutazioni, indicate da un valore che va da 0 a 10, individua la situazione e stabilisce la classifica. Un punteggio compreso tra 8,01 e 10 indica una democrazia completa, mentre i paesi che rientrano tra 6,01 e 8,01 sono considerati democrazie imperfette; quelli che ottengono un punteggio inferiore a 6,01 non sono considerati democrazie.
L’Italia stabile
Il nostro Paese si conferma, come lo scorso anno, al posto 34 col punteggio complessivo di 7,69: quindi è nella seconda fascia, dunque con qualche problema.
Entrando nel dettaglio, sul criterio legato al processo elettorale e al pluralismo conseguiamo un elevato 9,58, ma per il resto non eccelliamo. Per il funzionamento del governo otteniamo 6,79, in relazione alla partecipazione politica siamo valutati 7,22, nella cultura politica ci vediamo attribuire 7,50 e infine in merito alle libertà civili abbiamo 7,35.
Le ragioni di tale posizionamento sono molteplici. Positivamente viene valutata la stabilità politica, poiché dopo le elezioni del 2022 e la vittoria della coalizione di destra è ritenuto probabile che il governo duri tutta la legislatura. La finanza pubblica continua a preoccupare e a essere considerata tra le più precarie dell’UE; è stimato che la crescita economica rallenterà nel 2024, ma il calo dell’inflazione, un possibile aumento dei salari reali e gli investimenti finanziati dall’UE dovrebbero sostenere una modesta espansione della domanda interna. L’indice nelle sue valutazioni teme che “i partiti di maggioranza potrebbero minare la democrazia promuovendo l’intolleranza o approvando una legislazione illiberale o censurando i media”.
La classifica
Esaminando complessivamente i risultati emerge come solo 32 paesi hanno migliorato il punteggio rispetto all’anno precedente, mentre sono 68 quelli che hanno registrato un calo e 67 gli stabili, segno di una situazione di stagnazione e regressione. Il peggioramento ha riguardato tutte le aree del mondo a eccezione dell’Europa occidentale che ha fatto registrare un incremento impercettibile: lo 0,01%.
«Le regressioni maggiori si sono verificate in America Latina e Caraibi, Medio Oriente e Nord Africa. Anche i paesi del Sahel e dell’Africa occidentale sono stati tra i peggiori risultati nell’indice 2023, poiché colpi di stato e conflitti si sono diffusi in tutta la regione. Gli sviluppi negativi in Canada hanno portato a un calo del punteggio del Nord America a 8,27, al di sotto di quello dell’Europa occidentale (8,37), segnando la prima volta che il Nord America non si è classificata come la regione con il punteggio più alto al mondo da quando l’Indice di Democrazia è stato lanciato nel 2006».
In testa si è confermata la Norvegia col punteggio di 9,81 e, a seguire, Nuova Zelanda, Islanda, Svezia, Finlandia e Danimarca; mentre all’ultimo posto, con 0,26, si colloca l’Afganistan, preceduto da Myanmar, Corea del Nord, Repubblica Centrafricana e Siria.
Guerra, pace e democrazia
«Dalla guerra della Russia in Ucraina alla guerra tra Israele e Hamas, alla conquista militare del Nagorno Karabakh da parte dell’Azerbaigian, alla crisi Guyana-Venezuela, alla guerra civile in Sudan e alle insurrezioni islamiste nel Sahel nell’Africa occidentale, il mondo sembra essere inghiottito dal conflitto». La letteratura che affronta il tema dei conflitti li collega ai regimi autocratici, mentre la pace viene riferita come connaturata alla democrazia: è la «teoria della pace democratica». Essa ritiene che possedere istituzioni politiche rappresentative rende più difficile l’entrata in guerra senza il consenso dell’elettorato, a causa dei rischi e dei costi connessi; inoltre, una cultura politica democratica cercherà di risolvere i conflitti con mezzi pacifici. «Di conseguenza, la teoria della pace democratica suggerisce che le democrazie sono superiori ad altri sistemi politici, compresi tutti i modelli autoritari, perché favoriscono la riconciliazione e la pace rispetto al confronto e alla guerra».
La storia recente sembra supportare tale idea: non ci sono state guerre tra democrazie dal 1946. I paesi che hanno vissuto dei conflitti negli anni scorsi appartengono a quelli classificati nelle due categorie inferiori del Democracy Index e la loro valutazione è condizionata anche da tali situazioni.
La giovane democrazia
Il rapporto sottolinea, però, che la moderna democrazia è presente da troppo poco tempo, non «abbastanza lungo per dire in maniera definitiva che le democrazie non si fanno la guerra le une contro le altre». È importante un’ulteriore considerazione che capovolge la questione: è la democrazia che porta la pace o viceversa? «Si potrebbe sostenere che i paesi che hanno sperimentato la pace sono più predisposti ad avere sistemi politici aperti e liberali rispetto a quelli che hanno vissuto invasioni e guerre. E in che misura la democrazia e la pace sono influenzate da altri fattori, come la storia di uno Stato indipendente e i livelli di sviluppo socioeconomico? Il nesso tra democrazia e sviluppo socioeconomico non è conclusivo, anche se sembra esserci una forte correlazione tra i livelli di PIL pro capite e la qualità della democrazia. Le economie più ricche e sviluppate del mondo costituiscono la maggior parte delle “democrazie complete” classificate dal nostro indice. Anche l’esistenza di stabilità politica e/o l’assenza di instabilità politica sembrano essere un importante fattore determinante della crescita economica. Sembra che la prevalenza della pace e del conflitto possa dipendere da molti fattori diversi dalla democrazia».
La pace non è scontata, nemmeno per le democrazie
Il futuro potrebbe riservare conflitti causati dalla competizione sulle risorse, sui mercati o sui tentativi di estendere l’influenza di alcune grandi potenze: «Il pericolo è che a un certo punto la competizione si trasformi in un conflitto aperto e il mondo si ritrovi nuovamente sull’orlo della guerra. Ciò dovrebbe far riflettere i leader mondiali prima che la dinamica del conflitto tra grandi potenze diventi inarrestabile».
Una prospettiva positiva potrebbe essere l’allargamento ad altri paesi, alle economie emergenti ad esempio, del processo di confronto e di decisione per una migliore cooperazione internazionale, ridurre le tensioni e rafforzare la diffusione della democrazia.