«I credenti eventualmente coinvolti in episodi di sfruttamento di persone deboli e fragili, come i migranti, non solo compiono un reato, di cui dovranno render conto alla giustizia, ma commettono un peccato grave che li esclude dalla comunione eucaristica in attesa di una conversione capace di ottenere il perdono di Dio». Queste alcune parole della lettera diffusa da mons. Marco Brunetti, vescovo di Alba, nella quale affronta il tema del caporalato, fenomeno emerso e documentato anche nelle Langhe dalle forze dell’ordine. È significativo che essa è stata resa pubblica nella festa di san Benedetto, patrono dell’Europa, che ha sempre attribuito un significato fondamentale al lavoro, in particolare a quello nell’agricoltura, avvicinandolo alla preghiera nel celebre motto «ora et labora».
Dopo numerosissimi casi emersi ne corso degli anni e la recente terribile morte di Satnam Singh il fenomeno appare diffuso in tutta la penisola e tocca anche i nostri territori.
Cos’è
Il vocabolario Treccani lo definisce così: «Forma illegale di reclutamento e organizzazione della mano d’opera, spec. agricola, attraverso intermediarî (caporali) che assumono, per conto dell’imprenditore e percependo una tangente, operai giornalieri, al di fuori dei normali canali di collocamento e senza rispettare le tariffe contrattuali sui minimi salariali».
Il mondo del lavoro irregolare, sommerso e variegato, possiede differenti livelli di gravità sociale ed economica, ma il caporalato è certamente la forma più riprovevole e odiosa, poiché si configura come una vera e propria forma di schiavitù, di tratta e sfruttamento degli esseri umani. Investe tutta l’Italia e riguarda molti settori, quali l’edilizia, la ristorazione, il commercio e il tessile, oltre che, ovviamente, l’agroalimentare, nel quale appare diffuso.
Il caporalato esercita una violenta forma di coercizione sulle fasce più deboli e vulnerabili di chi cerca un lavoro e investe soprattutto immigrati provenienti da Medio Oriente, Africa sub sahariana ed Europa dell’est, riguardando anche gli italiani.
Qualche cifra
Naturalmente non esistono statistiche ufficiali sul fenomeno, ma alcune organizzazioni hanno condotto indagini nelle quali si stima che almeno il 25% delle aziende agricole ricorre ai servizi dei cosiddetti caporali per ingaggiare da 180.000 a 400.000 lavoratori in nero.
La paga media oscilla tra i 25 e i 30 euro al giorno, con un compenso orario che parte da due euro, ma che può essere dimezzata per le donne. Oltre all’evidente danno per i lavoratori vi è anche un mancato gettito contributivo per lo Stato, stimato in una cifra compresa tra i 700 e i 900 milioni di euro, nonché un importante finanziamento per le cosiddette agromafie valutato intorno ai 5 miliardi all’anno.
Per quanto riguarda le zone maggiormente coinvolte il rapporto del 2019 dell’Osservatorio Placido Rizzotto ne ha individuate 405: 129 localizzate al nord e 123 al sud, con numeri inferiori nelle regioni del centro (82) e nelle isole (71). Le aree più colpite si trovano in Veneto e Lombardia (particolarmente nelle province di Mantova e Brescia), Emilia Romagna, Lazio (soprattutto la provincia di Latina) e Toscana (intorno a Prato). A sud, le regioni in cui sono monitorati più procedimenti giudiziari di questo tipo sono invece Calabria, Puglia e Sicilia.
Contro la legge
Il caporalato è reato dal 2011, infatti l’articolo 12 del decreto n. 138/2011 ha introdotto una pena che va dai cinque agli otto anni di reclusione. Successivamente, la legge 199 del 2016 ha inserito nuovi strumenti penali, come la confisca dei beni, l’arresto in flagranza e la responsabilità del datore di lavoro, insieme all’inasprimento delle pene, con la reclusione da uno a sei anni per ogni lavoratore reclutato. La legge ha anche un intento preventivo che mira a valorizzare le imprese in regola attraverso l’iscrizione alla Rete del lavoro agricolo di qualità allo scopo di sperimentare nuove forme di intermediazione del lavoro agricolo, promuovere la legalità e il rispetto dei diritti dei lavoratori.
Quali danni per tutti
Il caporalato provoca una serie di ripercussioni. Del danno erariale si è già accennato come pure dell’arricchimento di chi si comporta al di fuori della legge e della morale, sfruttando manodopera disponibile a poco prezzo e priva di diritti. Naturalmente i primi danneggiati sono appunto i lavoratori e le lavoratrici sfruttati che per bisogno si prestano a questo commercio di carne umana, vivendo in condizioni disumane un’esistenza neppure riconosciuta, in ricoveri precari, sottoposti a lunghi periodi di lavoro sotto il sole o al freddo, per pochi euro.
Sono colpiti, poi, coloro che rispettano le regole, che assumono, pagano il giusto e praticano i diritti, in quanto sotto il profilo economico subiscono una concorrenza sleale da parte di risparmia sulla manodopera.
Tutta la società e il Paese intero vengono danneggiati poiché la qualità civile è penalizzata da chi non rispetta la dignità delle persone e delle normative che sono alla base di una società democratica e sana.
Come affrontarlo
In primo luogo è indispensabile non rimanere indifferenti e in silenzio, oppure considerare la questione limitata a pochi casi, magari lontani da casa nostra: come afferma il vescovo Brunetti «anche un solo caso è di troppo, la dignità umana non si misura a peso, anche una sola persona sfruttata, picchiata ed emarginata rappresenta un fatto grave e inaccettabile per una società civile e democratica che fa dell’accoglienza e dell’inclusione un principio cardine della propria convivenza».
La repressione è un elemento importante che deve vedere impegnate le forze dell’ordine, la magistratura e le pubbliche amministrazioni, insieme al fattore forse decisivo, la prevenzione: controlli e mobilitazione dei territori per combattere il fenomeno. Un gesto semplice è quello di avvisare le autorità nel caso in cui si abbiano dei fondati sospetti.
La pubblica amministrazione dovrebbe avviare un sistema informativo per il contrasto del fenomeno che metta in rete le banche dati di tutti i soggetti coinvolti.
Le vittime, attuali e potenziali, possono essere un elemento determinante, con l’avvicinarle, ascoltarle e informarle, aiutandole a mettersi in regola. Un esempio viene dal protocollo d’intesa per il domicilio elettivo nelle parrocchie stipulato in alcuni casi con le amministrazioni locali, per fare in modo che i migranti possono uscire dalla clandestinità.
Un impegno che tutti possiamo prendere è conoscere e scegliere prodotti indenni da tale malcostume, ad esempio acquistando alimenti con il marchio «No Cap», che garantisce una filiera di produzione agricola virtuosa. È anche possibile, negli altri settori, informarsi e osservare se vi sia il rischio di rivolgersi a operatori toccati dal triste fenomeno.