Storie di vittime del caporalato

Proponiamo questa pagina in una modalità differente, non raccontando la vita e le esperienze del testimone con alcuni commenti insieme all’offerta delle fonti per gli approfondimenti.

Questa volta prendiamo in prestito due testimonianze tratte dal grande lavoro che fa l’Osservatorio Placido Rizzotto, che ringraziamo per la collaborazione, diffuso anche attraverso il Rapporto Agromafie e Caporalato.

Per quanto riguarda la documentazione indichiamo quindi il loro sito e il materiale rintracciabile in altre fonti.

La storia di A. C.

Mi chiamo A.C. e sono pakistano, nato a Gujrat. Ho 31 anni, e sono da sei a Pordenone. Sono arrivato direttamente qui con altri connazionali pagando 7.000 euro. Non ero solo, ma con altri amici. Arrivati a Pordenone, sapevano già chi ci prendesse in carico alla stazione dei pullman. Ci portarono in una casa dove c’erano altre cinque persone. Il gruppo con cui sono arrivato era di quattro. La casa ospitava anche un collaboratore del caporale. Da due anni lavoro in agricoltura, prima ero fabbro nel mio paese, e l’ho fatto anche a Pordenone per pochi mesi. Ma la ditta poi è fallita e ho ripiegato in agricoltura. Non è un lavoro difficile, è solo pesante. Avevo il permesso di soggiorno grazie al lavoro precedente, così ho potuto fare il rinnovo. Ho vissuto per quasi un anno presso la casa dove sono arrivato. Il lavoro in agricoltura non mi è mai mancato, grazie a un amico che aveva la partita Iva e acquisiva lavori da alcune aziende agricole. Era colui che ho incontrato all’arrivo a Pordenone, con cui ho lavorato almeno un anno. Poi sono andato con un altro sponsor, perché mi aveva promesso di pagarmi di più. Prima prendevo al massimo 600 euro, poi con questo ultimo sono arrivato a 700. Avendo famiglia in Pakistan 100 euro in più sono molte.

Con questa cifra più alta ho affittato una casa con altri due amici, consigliato anche dal nostro sponsor perché diceva che era più vicino alle aziende con cui aveva rapporti di lavoro. In seguito, ho scoperto che la casa era intestata a nome suo, e noi in pratica pagavamo l’affitto e le altre spese direttamente a lui che poi versava il dovuto al proprietario, con un guadagno di quasi 200 euro al mese (lo abbiamo scoperto in seguito). Dopo qualche mese in questa casa tutto andava bene. Lo sponsor ci disse che l’affitto doveva aumentare di 50 euro perché le spese erano cresciute. Accettammo, poiché ci garantiva comunque di lavorare.

Ma il lavoro durante i primi mesi di pandemia era sceso di molto e non trovava lavoro, così ci diceva. Ma scoprimmo che aveva formato un’altra squadra che pagava meno di quello che dava a noi, cioè tre euro l’ora. Chiedemmo spiegazioni, ma si rifiutava di incontrarci. Una sera venne a casa con altri suoi collaboratori e ci disse che dovevamo lasciare la casa perché non voleva più lavorare con noi. In pratica ci mandava via, ci licenziava, anche se non ci aveva mai assunti. Ci costrinse a lasciare la casa entro un’ora, con spintoni e minacce molto pesanti. Andammo via senza nessun’altra spiegazione. Non ha pagato tutti gli stipendi, abbiamo un credito in denaro di quasi quattro mesi. Non vuole vederci e non vuole parlarci. E non vuole pagarci, dicendo che ha pagato per noi delle spese per la casa senza mai dirci quali. Ci manda a dire che può denunciarci per furto a casa sua, la casa dove eravamo in affitto. Non abbiamo fatto denuncia, anche se degli amici italiani ce lo hanno consigliato. Ma abbiamo paura, non solo del caporale, ma anche del suo datore di lavoro perché è conosciuto come una persona che non paga regolarmente gli operai e che minaccia di denunciare coloro che non hanno il permesso di soggiorno. Non sappiamo se i soldi del salario arretrato non ce li paga il caporale – dopo aver ricevuto i soldi al datore – o è quest’ultimo che non paga il caporale e questo non paga noi. Fatto sta che siamo nell’impossibilità di avere il nostro salario arretrato.

Adesso – è da giugno (2021) che non lavoro – sono ospite di una struttura di accoglienza. Ho dormito per circa due mesi nel parco, e alla stazione dei treni. Ho sempre lavorato e voglio continuare a lavorare in agricoltura, ma ho paura del caporale che mi ha minacciato. Perché lo conosco bene e so bene cosa è capace di fare. Mi ha fatto sapere – e lo dice anche in giro – che non mi deve nulla. Da quando sono in questa struttura lavoro qualche giorno alla settimana, mi chiamano quando c’è bisogno. Il nuovo datore che ho appena conosciuto ha visto che lavoro bene e mi ha promesso di farmi lavorare ancora. E con un contratto regolare.

La storia di H. H.

H.H. è un cittadino della Costa d’Avorio di 27 anni, arrivato a Lampedusa nel marzo 2014 e ospitato in un Centro di accoglienza nel territorio di Livorno. H.H, ha lavorato per circa due anni in una azienda agricola. A metà del 2019 si presenta allo Sportello SATIS per vittime di tratta e di sfruttamento lavorativo. Dichiara di avere il permesso umanitario in scadenza, a seguito dei “Decreti Salvini”, e manifesta la sua preoccupazione perché rischia di perdere il lavoro e diventare così irregolare. Racconta inoltre che il datore di lavoro non gli paga il salario da mesi, se non con acconti mensili di circa 300/400 euro. H.H. è creditore di circa 4/5.000 euro e le volte che ha chiesto il saldo è stato minacciato di denuncia dato che il suo permesso è in scadenza. Ha paura di non poter avere il salario maturato, e non poter di conseguenza inviare denaro alla famiglia. L’operatore sociale che lo accoglie gli spiega che in caso di verifica del suo stato di sfruttamento potrebbe fruire di assistenza. H.H. racconta che lavora con un altro gruppo di lavoratori di nazionalità diversa presso una azienda composta da più sedi operative e pertanto il suo lavoro viene svolto in parte in una sede, in parte in un’altra e in parte in un’altra ancora. H.H è spostato continuamente da una sede produttiva all’altra ma svolge il lavoro volentieri, poiché all’inizio aveva avuto assicurazione che la paga sarebbe ammontata a circa 800 euro mensili. Nel leggere le buste paga l’operatore si accorge che le giornate registrate sono molto di meno di quelle che H.H. dichiarava di aver mensilmente effettuato. I 3/400 euro che prende corrispondono formalmente a circa un terzo delle giornate lavorate. L’operatore gli spiega che è stato truffato e ingannato dal datore di lavoro proprio perché le giornate non risultavano assegnate. Anche perché H.H. ha solo l’UNILAV con le giornate presunte che non superano le 7 settimanali. H.H. mostra segni di sofferenza, di stanchezza ed appare sottopeso. Dichiara infatti che mangia male e lavora dieci ore consecutive al giorno e la sera crolla sul letto quasi senza mangiare nulla. Racconta, a proposito, che durante il giorno vorrebbe anche riposare poiché il lavoro è molto pesante, ma non gli viene concesso, né a lui né agli altri braccianti. H.H. dice che si sente soffocare, così anche i suoi colleghi. Viene minacciato di licenziamento per scarsa produttività, ma dice che è una pratica che il datore usa per spronare i lavoratori a fare ancora di più di ciò che fanno. Questa circostanza appare importante, poiché evidenzia che la minaccia di licenziamento è collegabile ai problemi di salute connessi alla condizione di sfruttamento lavorativo. H.H. infatti, anche secondo parere medico (essendo stato sottoposto a visita medica), si è ammalato in ragione degli altissimi ritmi di lavoro che svolgeva e della conseguente fatica che ne derivava quotidianamente. Il medico ha rilevato i seguenti disturbi: vertigini, dolori alla colonna vertebrale, problemi digestivi, dolori allo stomaco, piedi gonfi a causa delle eccessive ore in piedi, e senso continuo di spossatezza da fatica fisica. H.H. dichiara inoltre che non riesce più ad andare e tornare dal lavoro in bicicletta, come aveva fatto dal momento dell’assunzione. Gli viene consigliato di ricoverarsi per analisi più specialistiche. Resta in ospedale una settimana e il referto medico conferma quanto il medico di base aveva prognosticato: H.H. è stressato dal lavoro pesante che svolge e dalla cattiva nutrizione che può permettersi con una remunerazione così bassa. Gli hanno consigliato di riposarsi e di tornare dal datore di lavoro con il certificato dell’ospedale per ricevere il corrispettivo pagamento del periodo di malattia. Il datore si rifiuta di pagare la malattia e ancora minaccia H. H quando chiede il saldo salariale pregresso. A questa richiesta il datore di lavoro invita H.H. ad andare a casa per una decina di giorni per riprendersi, cosicché al suo rientro in azienda avrebbe sistemato tutto. H.H. resta a casa una decina di giorni, poi torna in azienda e viene licenziato per assenza ingiustificata e per continuato scarso rendimento sul lavoro. H.H. mostra all’operatore che lo segue una lettera firmata da lui stesso dove si legge che il licenziamento è stato una sua scelta volontaria, cioè è stato lui a dare le dimissioni. Ma questa lettera però è datata almeno tre mesi prima che H.H. arrivasse allo Sportello SATIS, il che dimostra che è stata fatta firmare dal datore di lavoro come condizione preliminare per l’assunzione e pertanto in via preventiva nel caso si determinasse un conflitto, come effettivamente avvenuto. Il dato che emerge dalle dichiarazioni di H.H. è che lavorava sette giorni su sette in tutte e tre le aziende riconducibili allo stesso datore di lavoro, con una media oraria di 12 ore, e l’estate anche 14 al giorno. E senza nessun riposo. Inoltre, due volte a settimana H.H. doveva restare in azienda, insieme ad un altro connazionale, per fare le pulizie dei macchinari. In caso di ispezione H.H. e gli altri colleghi di lavoro dovevano uscire immediatamente dall’azienda oppure – se non ci riuscivano – dovevano all’unisono affermare che era il primo giorno di lavoro, e quindi erano in prova. H.H. ha inoltrato una denunzia per sfruttamento e riduzione in schiavitù.